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La politica dei veleni

Paolo Pombeni - 15.06.2016
Ballottaggi 19 giugno

L’importanza del risultato dei ballottaggi del 19 giugno si capisce dal clima avvelenato che sta infestando la politica nazionale e, in misura minore, quella locale. Non sembri questa differenza  un paradosso, perché invece è una prova ulteriore del fatto che gli scontri nelle città hanno solo relativamente a che fare con le candidature in campo, e molto più con la questione complessiva del ricambio o meno di classi dirigenti e al tempo stesso dell’interpretazione delle vie per uscire dalla crisi in corso.

Diventa cruciale la domanda se la «santa alleanza», come l’ha definita Renzi, che si è formata contro l’attuale guida del governo riuscirà se non a spuntarla almeno a segnare molti punti a proprio favore nei ballottaggi che interessano i comuni più significativi dal punto di vista simbolico. Il governo non cadrà in caso di esito favorevole alla santa alleanza, ma certo sarà difficile che nel paese esso non venga letto come la riprova dell’inizio di una fase calante del consenso a Renzi. E si sa che in politica queste «letture» pesano.

Quel che emerge da una analisi di quanto sta accadendo è che non si contrastano trend di medio periodo con fuochi di artificio da lanciare negli ultimi quindici giorni. Nessun candidato sindaco aveva nei suoi depositi qualcosa di eclatante, ma neppure il governo o la eterogenea ammucchiata dei suoi avversari dispone di strumenti simili. L’impressione è che al riscaldamento dei toni non corrisponda un parallelo riscaldamento del coinvolgimento della pubblica opinione. La conferma o meno di questa impressione l’avremo analizzando l’andamento dell’astensione ai ballottaggi. Se verrà rispettata la tradizione, questi registreranno una flessione di partecipanti rispetto al primo turno, e ciò sarebbe la conferma che neppure la drammatizzazione dello scontro come battaglia a due può far uscire metà del paese dal suo distacco dalla politica.

Renzi sconta la carenza di figure forti con cui condividere la gestione della nuova fase politica che ha inteso elaborare. Il ministro Boschi non si sta mostrando all’altezza (imperdonabile la sua gaffe sui soldi che non arriverebbero più a Torino con la vittoria del M5S), e anche sul fronte del partito mancano le personalità capaci di sfondare. Se a ciò si aggiunge il fatto che, Torino a parte, i candidati del PD che vanno al ballottaggio nelle grandi città non sono proprio dei leader a tutto tondo, si capisce quanto la partita sia diventata piuttosto difficile.

Certo la «santa alleanza» non sta molto meglio. Anche in questo caso sono state sprecate troppe munizioni, almeno dal fronte dei partiti tradizionali. Salvini ha perso smalto e l’impressione è che ormai abbia fatto il pieno dei consensi che potevano arrivare alla sua visione piuttosto rozza della crisi attuale: il fatto è che quel pieno non è abbastanza per sfondare. Forza Italia paga il prezzo di una assenza di leadership causata dalla situazione del suo fondatore. Il caso di Milano, dove il suo candidato ha un buon appeal moderato è di fatto una eccezione che conferma la regola. L’estrema sinistra è uscita molto ridimensionata dal voto amministrativo e questo ha indotto a qualche cautela anche le opposizioni interne al PD.

L’unica formazione a cui andrà comunque bene è il M5S, per la semplice ragione che è l’unico partito che se vince canterà vittoria, ma se perde lo farà egualmente perché comunque si è affermato come quello che ha sconvolto il quadro del tradizionale bipolarismo della seconda repubblica. Ovviamente nel caso di vittoria della Raggi a Roma, data per molto probabile, o della Appendino a Torino, meno probabile, ma nel caso di ancor maggiore impatto, il consolidamento dei Cinque Stelle come alternativa di sistema verrebbe ulteriormente legittimata. Questo verrebbe letto come un segnale di crisi del renzismo e metterebbe qualche ipoteca non tanto sul referendum di ottobre (dove la gente se voterà lo farà a prescindere da queste schermaglie), quanto sull’andamento del confronto dentro il PD. Ci pare che questa sia un’incognita di cui si tiene poco conto.

In questo clima di incertezza la spinta ad affidarsi ai veleni come arma di scontro elettorale è molto forte. I politici in genere pensano che non ci siano troppi rischi a ricorrere a questi, tanto il cinismo della maggior parte di essi li considera enfatizzazioni passeggere che poi si chiuderanno nel cassetto appena uscito dalle urne il risultato dei confronti. In realtà non è mai così, poiché abituare un paese al trionfo dello spirito di fazione è qualcosa che poi non si riesce a tenere sotto controllo. Nel caso attuale è ancora meno vero, perché lo sfondo in cui tutto si inserisce è l’angoscia per una crisi economica e sociale di cui non si intravvede ancora la fine. E’ questo che spinge tutti a cercare di trovare in ogni cosa i presagi di quel che ci si potrà aspettare dal futuro e di conseguenza che produce la corruzione dei sistemi di convivenza. Cioè di quella risorsa fondamentale con cui appunto le società politiche possono dominare gli scossoni e le trasformazioni che ogni crisi produce.