Ultimo Aggiornamento:
20 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

La missione non sia proselitismo. Note sull’Angelus di papa Francesco

Claudio Ferlan - 14.01.2017
Antonio Spadaro e Bergoglio

Nell’Angelus di domenica scorsa, 8 gennaio, Francesco ha commentato il passo del Vangelo di Matteo che racconta il battesimo di Gesù per mano di Giovanni, detto appunto il Battista (Mt, 3, 13-17). Il papa si è soffermato sul momento in cui Giovanni dice: «Sono io che dovrei essere battezzato da te» e sulla reazione del Messia che lo invita a procedere perché si adempiano le Scritture: «Ecco lo stile di Gesù e anche del missionario dei discepoli di Cristo: annunciare il Vangelo con mitezza e fermezza, senza arroganza o imposizione. La vera missione non è mai proselitismo ma attrazione a Cristo».

 

Battesimi di massa e ospedale da campo

La riflessione di Bergoglio si pone in piena continuità con i tratti di un pontificato che abbiamo imparato a conoscere. Nell’intervista con Luigi Scalfari dell’ottobre 2013 Francesco era stato molto chiaro: il proselitismo è una sciocchezza, è arroganza che nulla ha a che vedere con la vera missione, sintetizzata nell’immagine della Chiesa ospedale da campo, chiamata a uscire per curare gli ammalati. Nella sostanza, sono pensieri che appartengono da tempo al sistema missionario cattolico, di certo dal Concilio Vaticano II, ma in alcuni casi anche da molto prima. Del resto, anche un papa considerato ben più tradizionalista di quello regnante, Benedetto XVI, sottolineò come la Chiesa cresca per attrazione e non per proselitismo.

Gli ambienti più chiusi e reazionari della cattolicità rifiutano con forza questo modo di pensare e di procedere e difendono una lettura astorica del Vangelo e della missione, chiamando a raccolta i sostenitori del ‘vero cristianesimo’ e invitandoli proprio al proselitismo. Probabile ci sia un certo sguardo nostalgico nei confronti dei battesimi di massa che caratterizzarono le prime imprese evangelizzatrici conseguenti i viaggi di scoperta del XVI secolo. All’epoca, ci si trovasse nelle Americhe o nell’Estremo Oriente, il missionario cattolico recitava sovente raffazzonati catechismi a masse che non capivano quello che diceva o, nella migliore delle ipotesi, ascoltavano una traduzione di norma imprecisa e improvvisata. E poi battezzava tutti. Ci si rese ben presto conto che tutto questo non aveva alcun senso e nacquero così i primi programmi complessi di catechesi, nei quali però non era difficile riconoscere l’«arrogante proselitismo» di cui parla Francesco. Il tempo avrebbe portato con sé una sempre più diffusa volontà di dialogare con le altre fedi, nell’ottica di quella che viene chiamata ‘inculturazione del Vangelo’, specialità gesuitica prima di tutto. Il desiderio di confronto non è riuscito però a convincere tutti, come prova l’esigenza sentita da Bergoglio di tornare più volte sul tema.

 

Grecia, Congo e Perù

Possibile anche che, oltre alla nostalgia, vi sia da parte degli oltranzisti della tradizione anche un pizzico di ignoranza, o quantomeno un consapevole rifiuto di alcuni momenti della Scrittura e della tradizione. A mo’ di reazione, il direttore del quindicinale dei gesuiti La Civiltà Cattolica Antonio Spadaro ha postato sul proprio profilo Twitter un passo significativo della Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II.  In particolare, quello in cui si commentano i discorsi di Paolo a Listra e adAtene (At 14,15; At 17,18 e 22), nei quali – scriveva il papa polacco – l’apostolo «entra in dialogo» con i valori culturali e religiosi dei diversi popoli. In sintesi, Paolo mirava a far capire come il Dio che egli stesso rivelavafosse già presente nella loro vita: era Lui il creatore e colui che dirigeva misteriosamente i popoli e la storia. Per riconoscere il vero Dio serviva però abbandonare i falsi dei. Non possiamo pretendere da Paolo, a costo di essere (appunto) antistorici, un pieno rispetto delle religioni altrui, ma siamo autorizzati a riconoscere in lui lo sforzo di proporre un messaggio non arrogante.

È lo stesso sforzo fatto da migliaia di missionari, a rappresentanza dei quali piace qui ricordare il francescano belga Placide Tempels (1906-1977), che nei suoi ventinove anni in Congo studiò in profondità il pensiero africano, pubblicando nel 1945 La filosofia bantù (la traduzione italiana è del 2007). Tempels partiva dalla convinzione che «tutte le popolazioni ‘primitive’ abbiano un concetto chiaro e distinto dell’essere supremo e che da questo concetto provenga un intero sistema logico ed etico che rispecchia la ragione e la bontà divina» (la citazione è tratta dalla pagina 77 dallo splendido libro di Justin E. H. Smith, Il filosofo, recentemente tradotto in italiano da Einaudi). Ma è lo stesso sforzo che altre migliaia di missionari hanno ritenuto di non dover fare. Come scritto, Tempels non è affatto il solo. Uno sconosciuto e poco dotto missionario gesuita di fine Cinquecento come Juan de Casasola, spagnolo attivo in Perù, non ci ha lasciato libri ma dalle sue azioni possiamo ricostruire un grande interesse nei confronti della vita religiosa indigena e dei suoi rituali, con i quali cerca di dialogare e dai quali, probabilmente, si lascia attrarre valicando i confini di ciò che il pensiero del suo tempo riteneva lecito.

Una rapida riflessione sul proselitismo arrogante ci aiuta a ricordare come la diversità delle anime che compongono il variegato mondo cattolico sia una caratteristica presente fin dalle sue origini. Il punto di massimo scontro tra gli estremi non pare essere tanto il pontificato di Francesco, quanto piuttosto la celebrazione del Concilio Vaticano II, del quale il papa argentino si sta forse facendo interprete più convinto dei suoi predecessori.