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La memoria della Shoah nell’era dei selfie. Per un’etica dello sguardo

Maurizio Cau - 04.02.2017
Artists Selfie Museum

Ora che un’altra “giornata della memoria” è alle spalle, ora che le luci sono tornate a spegnersi in attesa della prossima ricorrenza prevista dal calendario civile, ora che si ripongono nel cassetto le citazioni di Levi e le immagini dello sterminio (o della sua pluridecennale ricontestualizzazione cinematografica), ora che i palinsesti televisivi si sono svuotati del cerimonioso omaggio alle vittime della Shoah (un omaggio prevedibile e sempre uguale a se stesso), ora che tutto questo è passato, è forse possibile sviluppare un ragionamento sul senso e i limiti di quella ritualità retoricamente sovraccarica che, un giorno all’anno, inonda carta stampata, social network, TV.

Come ricordava un paio di anni fa in un denso libretto Elena Loewenthal, che non può essere certo tacciata di scarsa sensibilità sul tema o, peggio, di aspirazioni negazioniste, «il 27 gennaio di ogni anno si evoca il ricordo della Shoah. Si organizzano eventi, incontri, celebrazioni ufficiali. Ma che cosa sta diventando questo Giorno della Memoria? Una cerimonia stanca, un contenitore vuoto, un momento di finta riflessione che parte da premesse sbagliate per approdare a uno sterile rituale dove le vittime vengono esibite con un intento che sembra di commiserazione, di incongruo risarcimento» (Contro il giorno della memoria, ADD editore, 2014).

Da un certo punto di vista non c’è da meravigliarsi. La storia e, più in generale, il nostro rapporto col passato stanno subendo una significativa torsione a causa del ruolo sempre più rilevante che la retorica memoriale guadagna nel discorso pubblico. Lo ha ricordato di recente Francesco Benigno, uno studioso sensibile al tema, sottolineando come la storia tradizionale sia stata incalzata e scalzata da una nuova storia incentrata sulla memoria. Un processo che nella progressiva musealizzazione del passato e nella traduzione sul piano emotivo del patrimonio storico trova due tra le sue più evidenti concretizzazioni.

Per riflettere su alcune caratteristiche del complicato rapporto che il mondo contemporaneo va maturando con alcune delle pagine più buie della sua storia vale la pena partire dalle caratteristiche e dai limiti che la monumentalizzazione della memoria sta conoscendo nella società attuale. Interessanti spunti vengono da due recenti operazioni artistiche, che con linguaggi e registri assai differenti riflettono sostanzialmente sullo stesso problema, ossia sul corto circuito cognitivo e comunicativo che spesso caratterizza il turismo della memoria: mi riferisco al progetto Yolocaust, opera di un artista satirico israeliano attivo a Berlino, e ad Austerlitz, il documentario di Sergej Loznitsa uscito nei giorni scorsi nelle sale italiane (qui il trailer https://vimeo.com/191467460).

Quello di Shahak Shapira è una riflessione sul ruolo che l’ipertrofica produzione di immagini propria dell’era del selfie ha nel processo di elaborazione della memoria della Shoah. È un progetto nato dall’esame delle immagini che i turisti scattano tra le colonne del Memoriale per l’assassinio degli ebrei progettato a Berlino da Peter Eisenmann. Colpito dalla fruizione giocosa e scanzonata che molti giovani riservano a un luogo sovraccarico di drammaticità, Shapira ha recuperato dai social network alcuni di quegli scatti e li ha rielaborati sostituendo lo sfondo reale con immagini tratte dalla più cruda iconografia della realtà concentrazionaria nazionalsocialista. Le animazioni, rese disponibili un paio di settimane fa sul sito https://yolocaust.de, ricontestualizzano le pose solari e divertite dei turisti (ma c’è anche chi sulle colonne del monumento di Eisenmann fa yoga…) riposizionandole nei luoghi dell’orrore; a fare da sfondo ai sorrisi e alle smorfie sono così fosse comuni, mucchi di cadaveri, corpi scheletrici adagiati nelle baracche. Lo stesso nome dato al progetto, “Yolocaust”, ha una chiara valenza provocatoria: nasce infatti dalla crasi tra Yolo, acronimo dell’espressione you only live once, e Holocaust.

Il risalto avuto dall’operazione ha indotto i ragazzi divenuti involontariamente protagonisti del progetto a scusarsi della leggerezza dei propri scatti. Dopo pochi giorni le gif sono state rimosse una dopo l’altra e sul sito è rimasta solo la presentazione del progetto e il racconto della sua brevissima storia.

Un risalto meno massiccio ha avuto la distribuzione del documentario di Loznitsa, ma siamo di fronte a un lavoro che nella sovraffollata filmografia sul tema della memoria della Shoah rappresenta un’opera di grande rilevanza. Il film, presentato con grande successo di critica all’ultimo festival di Venezia, è una sorta di visita guidata a Sachsenhausen, il campo di concentramento alle porte di Berlino. Al centro della rigorosissima pratica di osservazione del regista non ci sono però i resti di ciò che è stato, ma le azioni di chi oggi visita quel luogo per fare esperienza, ognuno in modo diverso e personale, di ciò che quello spazio continua a rappresentare.

Guardate dall’esterno, le forme della fruizione di uno dei luoghi simbolo della Shoah sembrano in tutto e per tutto quelle tipiche del turismo di massa. Nei dilatati piani sequenza in bianco e nero è un avvicendarsi di foto ricordo scattate nei forni crematori, di aste per i selfie brandite con disinvoltura davanti al cancello del campo (le foto di rito davanti alla nota scritta pensata da Goebbels non possono mancare), di siparietti macabri, di pranzi al sacco tra una baracca e una cella di tortura, di spostamenti a tappe forzate per rispettare i tempi di visita imposti dalle guide. In questo senso il film rappresenta una riflessione sul senso della testimonianza e sui problemi di ordine morale che ogni esperienza di quel mondo (e ogni sua forma di racconto) impongono.

Come nel caso di Yolocaust, si tratta si un lavoro costruito intorno a un incrocio e a una sovrapposizione di sguardi. Dall’incontro tra lo sguardo del regista (che coincide col nostro) e le pratiche testimoniali visive tipiche del turismo memoriale si sviluppa un corto circuito che apre riflessioni non scontate sul processo di risignificazione memoriale che, attraverso la sua musealizzazione, ha trasformato un luogo di barbarie in un luogo di cultura. In uno spazio dove non sembra essere rimasto più nulla da vedere e dove quel che si vede è in buona parte ricostruito e rimesso in scena con finalità didascaliche, ogni sguardo (compreso quello dello spettatore che si rifrange nello sguardo dei turisti) sconfina nella profanazione. Per questo Loznitsa si chiede, senza fornire naturalmente risposte, se per fare esperienza di quei luoghi ed elaborare ciò che vi è accaduto non sia preferibile sostituire la preghiera alla conoscenza, il silenzio alla trasmissione solo parziale di contenuti.

Temi su cui si è soffermato di recente anche Georges Didi-Huberman, tra i più raffinati studiosi della memoria visiva della Shoah, nel racconto fotografico di una visita fatta al campo di Auschwitz (Scorze, Nottetempo, 2014). Il potere dello sguardo è messo a dura prova dal velo banalizzante che ogni processo di musealizzazione del passato porta con sé, ma la ricerca non va interrotta. Come sottolinea il filosofo e storico dell’arte francese, «non si puòmai dire: non c’è niente da vedere, non c’è più niente da vedere». La questione, semmai, è capire cosa guardare, come vederlo e come mostrarlo.