La «foto di gruppo con signora» dello Spiegel. Un problema solo tedesco?

Un’Angela Merkel sorridente, vestita con abiti dai colori pastello, circondata da sette gerarchi nazisti, con il Partenone sullo sfondo. È questa la foto della copertina dell’ultimo numero dello Spiegel, che ha pubblicato un reportage su come gli europei vedono la Germania dal titolo «Il Quarto Reich». La foto manipolata – quella originale fu scattata nel 1941 – è chiaramente provocatoria. Come ha affermato il caporedattore del settimanale tedesco, Klaus Brinkbäumer, rispondendo alle polemiche sollevate dal quotidiano Süddeutsche Zeitung e da altri quotidiani tedeschi, «non si può fraintendere, a meno che non lo si voglia fare». D’altra parte, l’articolo dello Spiegel avrebbe sicuramente guadagnato in qualità se gli autori, che pure si sono documentati, non si fossero limitati, per negligenza o opportunismo, a citare solo quelle fonti straniere che corroborano l’immagine di un’opinione pubblica europea incline ad accostare i tedeschi di oggi ai nazisti di ieri. È significativo, ad esempio, il fatto che per l’Italia venga citato Il Quarto Reich di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano e non Cuore tedesco di Angelo Bolaffi o altri volumi usciti recentemente che cercano di restituire un’immagine meno faziosa e superficiale della Germania al tempo di Angela Merkel.
Tale rilievo nulla toglie al fatto che la questione sollevata dallo Spiegel pone un problema politico e culturale ineludibile. Un problema sicuramente rilevante per la Germania, che è l’unico paese ad avere le credenziali per assumere la leadership in Europa, ma a cui manca ancora l’ingrediente più importante per esercitarla: una piena legittimazione internazionale. D’altro canto, la questione interessa anche gli altri paesi europei nei quali vengono veicolati messaggi, come appunto quello dell’esistenza di un fantomatico «Quarto Reich», che rivelano un grave deficit di conoscenze storiche e di cultura politica. Se i tedeschi si interrogano giustamente sul fatto se sia legittimo o meno dipingere la Germania come un paese egemone ed egoista, sordo alle istanze degli altri paesi europei, gli italiani dovrebbero chiedersi perché essi continuino a essere ricettivi nei confronti di un discorso pubblico che non solo è intellettualmente disonesto, ma anche lesivo della loro immagine all’estero. È difficile infatti risultare autorevoli nei consessi internazionali, se in casa propria non si è in grado di distinguere la Germania di Angela Merkel dall’esperienza del regime nazista.
Potrebbe dunque essere di una qualche utilità provare a ragionare su come la storia europea del ’900 sia stata rielaborata in Italia e sul perché gli italiani del ventunesimo secolo conoscano molto meglio la prima parte del «secolo breve» rispetto alla seconda. Uno degli effetti collaterali di questa rielaborazione selettiva del passato è che la percezione dei tedeschi in Italia risulta ancora oggi fortemente condizionata da pregiudizi, luoghi comuni e stereotipi – come per esempio, la tendenza alla prevaricazione dei tedeschi – che rinviano a eventi lontani nel tempo, come la prima o la seconda guerra mondiale. Sempre a tale riguardo, sarebbe forse opportuno mettere in discussione il modo in cui in Italia è stata per molto tempo raccontata la storia della costruzione europea. La comprensibile enfasi posta sulle esperienze traumatiche, che hanno preceduto e in larga parte concorso a legittimare il percorso d’integrazione sul vecchio continente, ha fatto sì che da noi più che altrove venisse veicolata una rappresentazione trionfalistica e irenica, in cui la dimensione competitiva e conflittuale dell’integrazione è stata spesso eccessivamente ridimensionata o addirittura negata. L’invocazione del «Quarto Reich» potrebbe forse essere una reazione a una narrazione dominante della storia degli ultimi sessant’anni che trova sempre meno corrispondenza nelle percezioni di un’opinione pubblica comprensibilmente allarmata dalla crisi, nonché sconfortata dalla scoperta di ritrovarsi, ancora una volta, nella condizione di uno dei «grandi malati d’Europa», a fronte della nuova potenza «semi-egemonica» tedesca. Si potrebbe, infine, avviare una riflessione sull’italica insofferenza al pedagogismo nordico. Come ha spiegato recentemente lo storico Giovanni Orsina, tale insofferenza è stata una delle componenti importanti del successo del berlusconismo. Dopo i continui tentativi falliti dalle classi dirigenti della prima repubblica di «creare gli italiani», educandoli e ‘riformandoli’ dall’alto, Berlusconi sarebbe riuscito per primo a veicolare una narrazione rivoluzionaria – sul piano storico accostabile nel contenuto solo all’esperienza di Guglielmo Giannini e dell’Uomo Qualunque (1945-1948) – basata sull’esecrazione del mondo della politica e soprattutto sulla lusinga alla società civile. Da vent’anni a questa parte messaggi ‘popolar-patriottici’ – «gli italiani vanno bene così come sono», «l’Italia non accetta lezioni da nessuno», «no all’idea di un’Unione europea maestrina che dà bacchettate» – pagano in termini di consensi. Nell’attuale congiuntura storica, nell’immaginario collettivo italiano (e non solo) chi più di tutti incarna il pedagogismo nordico al quale ribellarsi, contrapponendo un nuovo orgoglio nazionale, è la Germania guidata dalla Cancelliera Angela Merkel. Lo si è visto chiaramente nel maggio scorso durante la campagna elettorale per le europee, nel corso della quale la critica circostanziata alla politica europea della Germania è spesso degenerata in una generica rappresentazione stereotipata dei «cattivi tedeschi».
Non si chiede di inserire nei percorsi scolastici e universitari la lettura del romanzo di Heinrich Böll «Foto di gruppo con signora», un’opera del 1971 che è valsa all’autore il premio Nobel per la letteratura e che dà voce alla coscienza critica della Germania uscita dalle devastazioni della seconda guerra mondiale. Tuttavia, sarebbe quanto mai opportuno che allo studio della storia europea del ’900, compresa quella successiva al 1945, venisse dedicata maggiore attenzione. Una preparazione più solida, così come un discorso pubblico meno inquinato, potrebbe aiutare le nuove generazioni a comprendere un po’ meglio quel che sta accadendo oggi in Europa, Germania e Italia, senza dover ricorrere alla manipolazione di foto scattate nel 1941.
di Gabriele D'Ottavio
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