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La formazione tra crescita personale e spendibilità sociale

Francesco Provinciali * - 16.03.2019
Formazione

Al banchetto della legge di bilancio, definita “manovra per il popolo”, il grande convitato di pietra è un piano di investimenti mirato sulla cultura, la formazione, l’innovazione del sistema scolastico.

L’assenza si fa notare non solo dal punto di vista del budget finanziario stanziato per l’istruzione ma anche per qualsivoglia propedeutica analisi comparativa con i sistemi formativi dei Paesi della Comunità Europea.

Se da più parti si chiede un’Europa dei popoli, interconnessa sul piano istituzionale e con riferimenti etici e culturali condivisi e non solo un’Europa delle banche, dei mercati e della finanza, l’occasione del confronto su questi aspetti è andata perduta. Evidentemente questo tema non è stato messo nell’agenda dei negoziati bilaterali tra Governo italiano e Commissione europea, si è preferito elemosinare il condono delle procedure d’infrazione per imporre il reddito di cittadinanza (con tutti gli impliciti interrogativi tuttora irrisolti) piuttosto che portare al tavolo delle trattative, per nostra iniziativa, un piano europeo di sviluppo su scuola e istruzione. Infatti l’Italia resta agli ultimi posti sia rispetto agli investimenti in ricerca pura e applicata, sia miratamente in ordine all’innovazione dei suoi programmi di alfabetizzazione culturale e digitale, sia per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, che per le dotazioni di risorse umane e di mezzi a disposizione.

Va detto che la guida politica del nostro sistema formativo da qualche anno in qua non brilla certo per competenza e visione delle problematiche in campo e delle prospettive di sviluppo.

A partire dalla cd. “buona scuola” che ha introdotto - con un articolato confuso di temi correlati tra loro in un ordine non logicamente sequenziale, come mai era accaduto di riscontrare nei precedenti provvedimenti legislativi sull’istruzione – nei suoi assetti organizzativi e nelle sue finalità istituzionali una concezione aziendalistica e burocratica, verticistica, centrata più sui dirigenti-manager che sugli insegnanti e gli alunni, valutabile esclusivamente secondo parametri di efficienza-efficacia, fredda, asettica dove viene data più importanza alle formule e alle sigle che al fattore umano.

Gli insegnanti sono estenuati da riunioni pletoriche e ridondanti, capita di riscontrare convocazioni degli organi collegiali (specie del collegio dei docenti) con 18/20 punti all’odg, con una calendarizzazione così frequente e ravvicinata da costringere a dedicare più tempo alla preparazione dei  corollari preliminari e formali che all’attività didattica vera e propria che costituisce l’”ubi consistam” della funzione della scuola: insegnare, apprendere, studiare, formare menti critiche e aperte alla conoscenza trasmessa e a quella sollecitata come fattore di crescita personale, creare competenze, consentire ai docenti di esprimere potenzialità professionali e agli alunni di imparare in un ambiente ricco di sollecitazioni umane e relazioni, di contenuti solidi e stimolante sul piano delle motivazioni individuali.

Nella manovra del Governo e negli atti del MIUR non si riscontra nulla di emendativo o correttivo di questa impostazione rigida, burocratica e formale. L’anno scolastico è iniziato puntualmente coi problemi di sempre: le cattedre da assegnare, le graduatorie da scorrere, le procedure da espletare, i problemi di edilizia scolastica e di qualificazione professionale del personale. Per riscontrare provvedimenti normativi in tema di diritto allo studio, libertà di insegnamento, estensione del tempo-scuola, profili giuridici e competenze degli addetti ai lavori, diritto-dovere all’aggiornamento, logica della sperimentazione e del suo controllo, valutazione oggettiva e non autoreferenziale del sistema scuola, produttività della formazione, incentivi alla ricerca metodologica, riordino dei programmi di studio in ottica di pedagogia comparativa con i Paesi della Comunità europea, bisogna risalire al decennio degli anni ’70/80.

Come già evidenziato, si è assistito ad una deriva di impoverimento dei contenuti culturali (vedasi l’espunzione della geografia dai programmi delle superiori e l’eliminazione del tema di storia alla maturità) e ad una speculare crescita di progetti effimeri e transeunti, dove - anche nella cd. “scuola dell’autonomia” e paradossalmente in essa ancor di più - prevalgono gli aspetti formali e un ritualismo burocratico asfissiante, accompagnato da una pletora di sigle, formule, parcellizzazioni e limitazioni, sovrapposizione di ruoli, rendicontazioni oblative e inutili, modulistiche da compilare, documenti da redigere, procedure meccanicistiche svuotate di una cultura solida, basilare, fondativa, radicata nella nostra secolare tradizione culturale e pedagogica.

Una scuola preoccupata di assolvere compiti formativi e di istruzione avvalorati sulla base della loro spendibilità e del loro accreditamento sociale: ciò che si impara è utile se serve, se monetizza risultati.

Il nesso scuola-mercato del lavoro è certamente fondamentale nella messa a punto dei programmi di insegnamento e negli apprendimenti acquisiti, che devono avere una valenza funzionale rispetto alle esigenze produttive e di crescita del mondo delle imprese e dell’economia, secondo una logica di continuità tra i due ambiti, quello della propedeutica formazione e quello della sua utilità sociale.

Ma il compito della scuola non inizia e non finisce qui.

Va detto tuttavia che – come sopra evidenziato- alla scuola italiana e all’organizzazione del suo sistema di formazione e istruzione è mancata la sensibilità della politica e l’assenza di scelte capaci di focalizzare e distinguere il necessario dal superfluo: hanno infatti prevalso fino ad oggi la logica del ‘manuale Cencelli’ e quella – ancor più nociva – dello spoils system, voluto dai partiti che si sono avvicendati alla guida del Paese – nessuno escluso – in una logica di cooptazione basata su criteri di fedeltà e di appartenenza.

Il ruolo della scuola si esprime in una società attraversata da molteplici profili di complessità.

Comprendere questo assioma significa rendersi conto che l’apprendimento, ciò che in sintesi chiamiamo “istruzione”, non esaurisce la funzione della scuola, in quanto ha in prevalenza una funzione strumentale, di mera spendibilità sociale dei titoli di studio.

C’è poi l’aspetto “educativo” vero e proprio, quello che si preoccupa di una formazione più estesa: l’ottimizzazione delle attitudini individuali, il rafforzamento delle motivazioni, il radicamento dei valori condivisi, il rispetto per gli altri, i diritti individuali e sociali, il senso del dovere, l’educazione sentimentale, la formazione di menti critiche, libere e aperte al dialogo, la cittadinanza attiva, l’idea di Europa come patria comune.

Speriamo che il prossimo europarlamento consideri queste urgenze che riguardano il futuro del nostro continente.

 

 

 

 

* Già dirigente ispettivo del MIUR