Ultimo Aggiornamento:
13 aprile 2024
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La fine del modello Westminster?

Il «modello Westminster»

Giulia Guazzaloca - 14.08.2014
Nigel Farage

In attesa che anche la politica britannica riprenda il suo pieno corso dopo la pausa estiva – e allora tutti gli occhi saranno puntati sul referendum scozzese per l’indipendenza di metà settembre – si possono fare alcune considerazioni sul fatto che da qualche anno il sistema politico inglese (non diversamente da quello italiano) sembra vivere un’importante evoluzione. Un’evoluzione che potrebbe mettere fine al cosiddetto «modello Westminster» fondato sul bipartitismo e sul meccanismo dell’alternanza alla guida del governo.

Nella sua versione più semplificata, infatti, il «modello Westminster» indica la presenza di un assetto bipolare, un sistema elettorale maggioritario e l’accentramento del potere esecutivo in governi monopartitici. Sviluppatasi nel Regno Unito ma presente anche in altri paesi appartenenti al Commonwealth, questa forma di democrazia maggioritaria identifica un sistema governato da due soli partiti che tendenzialmente si alternano alla guida dell’esecutivo. Inevitabile che sin dall’800 una tale articolazione politico-istituzionale abbia suscitato ammirazione in schiere di politici e intellettuali italiani, alimentando così la contrapposizione, talvolta stereotipata, tra l’instabilità politica italiana e la Gran Bretagna patria dell’«ordine» e della «regolarità».

 

La storia

 

In realtà, se è vero che il «modello Westminster» affonda le radici nel lontano XVII secolo è anche vero che la Gran Bretagna non ha mai conosciuto quel bipartitismo perfetto tante volte evocato dai suoi estimatori continentali e soprattutto italiani. Non solo tories e whigs raggiunsero una certa stabilità di partiti organizzati solo nella seconda metà dell’800, ma nella storia inglese non vi sono mai stati solamente due soggetti politici. A lungo ha operato il partito nazionalista irlandese; conservatori e liberali hanno avuto spesso al loro interno correnti e gruppi artefici talvolta di vere e proprie scissioni; il partito liberale non è scomparso dalla scena nemmeno dopo che, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, il Labour Party si è imposto come una delle due formazioni politiche principali; partiti nazionalisti sono sorti in Scozia e Galles nel periodo fra le due guerre; governi di coalizione, pur rappresentando un’eccezione, non si sono avuti solo durante i conflitti mondiali.

Il quadro politico britannico si presenta insomma assai più articolato di quanto abbia trasmesso nel Continente il «mito» del bipartitismo perfetto. Anche la cosiddetta regola del pendolum, ovvero l’alternanza dei partiti alla guida degli esecutivi, è stata tutt’altro che ferrea. Il «pendolo» ha certamente funzionato, fra lo stupore generale degli osservatori internazionali, alle elezioni del luglio 1945, quando il partito di Winston Churchill, eroe della guerra e vincitore del nazifascismo, fu battuto dai laburisti. Ma si è bloccato in tante altre occasioni: negli anni Ottanta durante la lunga «era Thatcher» e successivamente con Tony Blair che ha guidato il Labour alla vittoria in tre elezioni consecutive; ed era successo anche in precedenza.

La storia ci rimanda dunque l’immagine di un sistema assai meno «eccezionale» e «regolare» di quello che nel tempo si è sedimentato nell’immaginario collettivo degli europei del Continente. Tuttavia, se oggi gli studiosi discutono della possibile fine del «modello Westminster» è perché una serie di fattori convergenti sembrano delineare una svolta epocale nella geografia politica e nell’aritmetica parlamentare britannica.

 

Il quadro politico oggi

 

Le elezioni del 2010, come puntualmente avevano previsto i sondaggi, hanno dato un esito incerto e reso decisivo il ruolo dei liberal-democratici di Nick Clegg, il quale, non a caso, aveva condotto la campagna elettorale all’insegna della necessità di scalzare i «due partiti vecchi e stanchi». In mancanza quindi di un partito con la maggioranza assoluta è stato inevitabile ripiegare su un governo di coalizione tra conservatori e liberal-democratici: il primo dagli anni Trenta del ’900 se si esclude quello di Churchill durante la guerra. Una coabitazione dai tratti tipicamente continentali e che ha assegnato un peso molto forte, anomalo per gli standard britannici, all’aritmetica parlamentare.

Se è bastato questo a produrre spaesamento negli elettori, privi di memoria diretta di analoghe coalizioni, e a far fioccare le riflessioni sulla possibile fine del «modello Westminster», ancora di più vi ha inciso la fulminante ascesa dello United Kingdom Indipendence Party di Nigel Farage. Si era fermato ad un modestissimo 3,1% alle elezioni del 2010 ma, complice forse la crisi economica, ha ottenuto importanti successi in successive elezioni amministrative e suppletive fino alla straordinaria affermazione alle europee dello scorso maggio. Con oltre il 27% dei voti ha infatti travolto laburisti e conservatori, conquistando 24 dei 73 seggi britannici al Parlamento europeo.

È chiaro che il voto europeo non può essere assimilato a quello per il Parlamento nazionale, ma oggi lo UKIP rappresenterebbe il primo partito in Gran Bretagna, privando laburisti e conservatori di un primato che detenevano da circa un secolo. In chiave storica si tratta di una svolta di certo rilevante, che lascia intravedere la possibile affermazione di nuovo assetto multipartitico. Saranno le elezioni politiche del prossimo anno a dirci se l’attuale coabitazione nell’esecutivo e il successo di Farage sono stati semplici «incidenti di percorso» nella tenuta del «modello Westminster» o se invece l’assetto politico britannico è destinato ad assumere stabilmente un profilo di marca continentale.