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L’Europa in crisi

Paolo Pombeni - 25.04.2015
Donald Tusk e Herman Van Rompuy

La crisi europea non consiste tanto nella sua difficoltà di affrontare il problema delle migrazioni di massa verso i suoi territori. Quello è un problema enorme e si può ben capire che generi sgomento, perché arginare un fenomeno di quella portata, governarlo in tempi di crisi economica, è una sfida gigantesca. Quel che dovrebbe preoccupare, perché non è invece una fatalità storica, è la contrazione fortissima che si registra un po’ dovunque dello spirito europeistico.

Al fatto che nell’affrontare temi impegnativi prevalga l’Europa dei governi nazionali rispetto alle sue strutture comunitarie si era preparati da molto. Senza risalire ai tempi divenuti quasi mitici di Delors, è da dopo la presidenza Prodi che i vertici comunitari di Bruxelles non provano neppure a tenere il timone della rotta dell’Unione. Tutto è stato affidato alla leadership degli stati di maggiori dimensioni (e di maggior peso economico) e poiché non c’è più il vecchio asse franco-tedesco, anche in quel campo si è assistito ad un pluralismo che fatica a trovare momenti di sintesi.

La tanto sbandierata riforma con la creazione del presidente stabile e dell’incaricato in pompa magna della politica estera comune, riforma che doveva portare l’Europa ad avere il famoso numero di telefono a cui Kissinger chiedeva fosse reperibile, non è servita a produrre leadership. Né van Rompuy né Tusk, non parliamo della Ashton e della Mogherini, sono riusciti ad elevarsi ad un minimo livello di leadership. Un apparato diplomatico faraonico costruito quasi dal nulla a nulla serve. Nessuno fa appello ai vertici UE come istanze da cui attendersi una qualunque capacità di iniziativa forte (perché certo tali non possono apparire i continui summit: ormai quelli solo come il bicchier d’acqua, non si negano a nessuno).

La denuncia di questa fragilità è in campo da molti anni, ma non si vedono robuste reazioni contro questo declino. A fronte di un crescente populismo che addita l’Unione Europea come la fonte di tutti i mali da cui è afflitto il continente, non si registra una reazione di intelligenze che pure, a stare ad una retorica neppure tanto datata, dovrebbero continuare a scommettere su quello che è stato il sogno e la speranza che esse hanno alimentato dal dopoguerra sino a non molti anni fa.

Anche qui si potrebbe semplicemente registrare il fenomeno come una normale oscillazione del pendolo nello svilupparsi delle pulsioni ideologiche. Ciò che impedisce di farlo è la riflessione sulla quantità di risorse mal spese da parte di Bruxelles per incentivare lo “spirito europeo”.

E’ piuttosto singolare che a fronte della debacle attuale dello spirito europeistico, nessuno si alzi a chiedere una severa analisi di come sono stati spesi sin qui gli ingenti capitali investiti per promuoverlo. L’impressione è che siano stati sperperati a sostegno di una retorica superficiale, quella del “Europa è bello” (a prescindere), pagando gadget inutili e improbabili centri di propaganda europeistica, non controllando che si impiantasse qualcosa di più inventivo che un po’ di turismo giovanile e di facili sottolineature dei vantaggi che sino ad un certo punto potevano derivare da quello che una volta si chiamava (correttamente) un mercato comune.

Certo per esempio con il programma Erasmus (e le sue evoluzioni) si è meritoriamente favorito l’interscambio di esperienze fra i giovani universitari, ma questo è stato sufficiente per creare uno spirito europeistico tanto forte da diventare un “motore” per le istituzioni comunitarie?

Il vero problema è infatti ancora questo: un “popolo europeo” non esiste, neppure a livello di elite sufficientemente estese, sicché la rappresentatività del parlamento di Strasburgo-Bruxelles è più che modesta, ed i vertici esecutivi non riescono ad esprimere qualcosa di diverso da una burocrazia neppur capace di risultare simpatica.

Certo rovesciare il trend attuale, che sta portando la UE al rango di una conferenza permanente fra un gruppo di stati sovrani europei, è impresa tutt’altro che facile. La paura del futuro che più o meno attanaglia i cittadini di tutti gli stati membri è, come è ovvio, cattiva consigliera, sicché i loro vertici politici si guardano bene dall’avventurarsi in politiche creative.

Eppure questa crisi andrà presa di petto se non si vuole che la UE entri quanto meno in una fase di ibernazione (costosa) che non sappiamo quanto possa durare. E’ singolare, a nostro giudizio, che nessuno prenda almeno la banale iniziativa di chiamare un certo numero di opinion leader e opinion maker europei a riunirsi in una commissione di lavoro per provare a riflettere su che fare per rispondere alla crisi attuale. Si dirà che un tale tavolo di lavoro non può produrre più che buone idee (almeno si spera possa essere in grado di farlo), ma si deve ricordare che, come diceva Lord Acton verso la fine dell’Ottocento, le idee governano il mondo.

Se non si fa qualcosa, il campo sarà nelle mani del populismo degli egoismi basati sull’identità (fasulla) delle “piccole patrie” più o meno inventate. Non è un pericolo fantasioso, è una emergenza non meno intensa di quella delle sfide per così dire più “materiali” a cui ci mette davanti la fase attuale di transizione storica.