L’Europa dei vertici
La speranza, o se preferite l’illusione di poter avviare la sistemazione dell’assetto di vertice dell’Unione Europea nella cena informale del 17 giugno è andata delusa. Quel che è emerso è che non esiste ancora una visione comune del ruolo che potrà giocare la UE negli anni, almeno inizialmente difficili, di questa nuova legislatura. A prevalere sono ancora gli equilibri “nazionali” che cercano faticosamente di comporsi. Insomma è la logica del condominio, quella che conoscono anche i cittadini comuni nelle assemblee dei caseggiati dove risiedono.
Il principio che per ora sembra dominare è quello di muovere il meno possibile nella distribuzione di pesi e incarichi: va bene così a coloro che sin qui hanno dominato, è accettato senza troppe sofferenze da quelli che non possono aspirare ad essere parte del grande gioco, trova l’opposizione solo di quelli che ambiscono ad un ruolo di maggior peso. Fra questi, come è noto a tutti, c’è la premier italiana Giorgia Meloni.
Il motore franco-tedesco oramai è usurato, ma né Macron, né Scholz sono disposti a prenderne atto. Soprattutto sul versante tedesco c’è il fatto che, piaccia o meno, il partito che ha di gran lunga il maggior numero di seggi al parlamento europeo è il PPE (190 deputati) ed è di fatto una componente a forte predominanza tedesca. Non a caso il suo “Spitzenkandidat”, Ursula von der Leyen, sembra al momento avviata alla riconferma alla guida della Commissione.
Macron aveva remore, ma le lascia cadere visto che non ha la forza per contrastarla, semmai potrà cercare qualche gioco di corridoio all’ultimo momento, ma non sembra aria. Per nobilitare il mantenimento dei consolidati equilibri nella distribuzione dei poteri si mette in scena la collaudata commedia del “no pasaran” verso le destre, cioè verso Meloni. È vero che quest’ultima è, come ha al solito argutamente detto Prodi, “ambidestra”, cioè conservatrice realista in Europa e ancora incline ai vecchi miti identitari del postfascismo in Italia, ma l’ambiguità non paga.
È abbastanza curioso che a suonare la tromba del muro verso destra, ovvero contro Meloni, sia il leader polacco Tusk: da un lato si capisce bene perché la destra del suo paese che ha sconfitto alle elezioni sta con il nostro premier, ma dall’altro lei è stata e rimane saldamente atlantista nella questione della guerra ucraina, cosa che a Varsavia preme molto. Comunque la sostanza è che se aggiungi un posto a tavola devi dividere qualche porzione e questo lo si fa se proprio si è obbligati.
Da questo punto di vista Meloni è un commensale scomodo, perché non rappresenta una normale richiesta di qualche seggiola (questo è sempre tollerato, perché fa parte della politica), ma vorrebbe presentare all’Europa una richiesta programmatica piuttosto impegnativa: una nuova politica africana. Si può discutere se e quanto si tratti di un disegno concreto, ma il problema esiste e Francia, Germania e anche Spagna non vedono di buon occhio una espansione italiana nel fronte Sud, specie ora che l’economia del nostro paese va abbastanza bene (certo c’è il nostro mostruoso debito pubblico, ma per ora non fa crollare i conti dello Stato).
Naturalmente non si possono sottovalutare i risvolti nelle politiche interne dei vari stati che potrebbero aversi con il riconoscimento di un ruolo al destra-centro italiano. In Francia potrebbe contribuire alla cosiddetta “dediabolisation” di Le Pen, indebolendo la chiamata alle armi del “Nuovo Fronte Popolare”. In Germania non sarebbe tanto un assist alla AfD, con cui la destra meloniana ha poco da spartire, ma sicuramente un aiuto alle ambizioni della CDU-CSU di mettere fine al cosiddetto “governo semaforo”. In Spagna non si può dimenticare che Sanchez governa grazie ad una coalizione più che composita, mentre il partito popolare lo supera in termini di percentuali nei consensi. E si potrebbero aggiungerci i movimenti a destra in Olanda, in Austria e nell’Est Europa. Una ammissione di Meloni nel club che conta a Bruxelles avrebbe molte ricadute in questa fase così travagliata degli equilibri politici europei.
Per tutte queste ragioni la scelta che il blocco finora al potere vorrebbe proporre è quella dell’avanti più o meno come sempre. Von der Leyen in fondo è un presidente accorto della Commissione: niente iniziative azzardate, attenzione agli interessi dei governi nazionali, nessun particolare protagonismo. Insomma i tempi dei Delors, ma anche dei Prodi, non torneranno: di qui l’inconsistenza di una eventuale candidatura Draghi, personaggio poco maneggiabile e indisponibile al basso profilo. Avanti con la prassi della presidenza del parlamento divisa a metà fra PPE (Metsola sarebbe riconfermata) e socialisti che le darebbero il cambio a metà mandato (ma dopo due anni e mezzo la tenuta degli accordi sottoscritti oggi sarà tutta da verificare).
Ai socialisti la presidenza dell’Unione col portoghese Antonio Costa, anche qui con in sospeso la questione se allo scadere del mandato, che dura anche questo due anni e mezzo, lo si riconfermerà o meno. Di nuovo il problema di una posizione che doveva essere importante e che si è rivelato poco più che cerimoniale con la conseguente tentazione da parte di chi lo detiene di farsi largo a gomitate (il che non è stato sin qui un bel vedere). Altro ruolo che doveva essere decisiva l’alto rappresentante per la politica estera, quello che un tempo era il famoso mister PESC, e che in realtà ha pesato poco, visto che i governi nazionali non gli lasciano campo: vedasi l’irrilevanza della UE nelle crisi ucraina e mediorientale con Borrell che certo non ha brillato. Adesso si parla della estone Kallas per dare un posto ai liberali, ma francamente non abbiamo motivi per pensare che farà meglio e di più del suo predecessore. Meloni pensa che si occuperebbe più che altro del fronte orientale visti i problemi dei baltici e compagnia con la Russia trascurando l’Africa, ma non ci pare che questo sia il problema di fondo.
Tutto è sospeso fino alla riunione formale del Consiglio Europeo a fine mese e intanto si continuerà a trattare dietro le quinte, ma siamo sempre alla spartizione delle poltrone, di un disegno sul futuro dell’Unione e sulle modalità per renderla protagonista non c’è traccia. Senza quello e senza una leadership che possa dargli corpo il peso dell’Europa nella crisi del mondo attuale sarà modesto e marginale.