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22 gennaio 2025
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L’enigma di Hong Kong

Piergiorgio Cattani * - 10.07.2014
Leung Chun-ying

Da Hong Kong giungono importanti notizie che gettano luce su quello che si sta muovendo in Oriente soprattutto lungo le coste del Mar della Cina. Sappiamo come la collana di isole (perlopiù scogli disabitati ma di grande importanza strategica) che dall’arcipelago nipponico scendono fino a quello filippino e quasi all’Indonesia siano al centro di dispute territoriali che vedono di volta in volta la Cina contrapposta al nemico storico – il Giappone – a un vecchio alleato – il Vietnam – o ad altri Paesi come appunto le Filippine. Queste tensioni stanno mettendo tra parentesi la disputa potenzialmente più pericolosa, quella intorno al futuro di Taiwan: in caso di una (sempre più lontana) dichiarazione di indipendenza dell’isola, la Cina ha già detto che potrebbe usare la forza; nel caso di una “aggressione” cinese, gli Stati Uniti hanno un trattato militare che implica l’azione di forze americane contro qualsiasi nemico.  Ancora più in secondo piano passano le vicende delle città cinesi con un particolare statuto, quali Macao e appunto Hong Kong. Da quest’ultima città però si possono cogliere gli umori della grande Cina.

Nei giorni scorsi si è svolto un referendum autogestito sul suffragio universale, una consultazione partita da due università e appoggiata da varie forze politiche tra cui il Partito Democratico, che però si trova all’opposizione dopo le elezioni svoltesi nel 2012. Tutte le parole relative alle procedure elettorali democratiche a Hong Kong dovrebbero essere messe tra parentesi: le elezioni non sono vere elezioni, il governo non è veramente eletto, i referendum non esistono.

L’assetto istituzionale dell’ex dominio britannico, ritornato alla Repubblica Popolare Cinese nel 1997, è complesso e farraginoso, più libero rispetto a quello in vigore sulla terra ferma, ma comunque soggetto all’autorità di Pechino. Il tutto condensato nella formula “uno Stato, due sistemi”.  Esiste un “Comitato elettorale” di 1200 componenti che vengono dal mondo delle professioni (immediatamente torna alla memoria la “Camera dei fasci e delle corporazioni”, il Parlamento farsa del ventennio mussoliniano): questo organo nomina un “chief executive”, una sorta di amministratore delegato scelto con il beneplacito dell’autorità centrale. A questa assemblea se ne affianca  un’altra, il Consiglio legislativo, vestigia dell’amministrazione vittoriana datata 1843. Dal 2012 il Consiglio è composto da 70 membri, di cui – ricordiamoci che siamo in Cina – soltanto la metà sono eletti  democraticamente: alla fine la bilancia pende sempre per i raggruppamenti fedeli al governo centrale e che auspicano una maggiore integrazione con il continente.

Comunque sia, anche i 27 seggi dei partiti “pro democrazia” infastidiscono molto le autorità di Pechino. Quello che agita di più sono però le manifestazioni, moltiplicatesi in questi ultimi anni. Le più recenti sono quelle di inizio 2013 e appunto di questi ultimi giorni. Di solito si protesta contro il capo dell’esecutivo della Regione amministrativa speciale di Hong Kong (così si chiama ufficialmente) Leung Chun-ying, sul banco degli imputati con l’accusa di “svendere” la città arcipelago ai burocrati di Pechino.

Alla tradizionale “Marcia per la democrazia e il suffragio universale”, che ogni anno il primo di luglio (data del ritorno di Hong Kong alla Cina) porta sulle strade migliaia di cittadini, questa volta c’erano più di 500 mila persone. Ingenti le misure di sicurezza, obbligatori quasi gli arresti successivi, consueto il silenzio delle autorità politiche. Si replicano scenari già visti. Come per esempio il forte appoggio della Chiesa cattolica a queste rivendicazioni, sia da parte dell’attuale arcivescovo cardinale John Tong sia dal “vecchio” ma indomabile assertore della linea dura con la RPC, cardinale Zen.

La distanza tra Hong Kong e il continente non è solo politica, ma si insinua nella mentalità comune della gente dell’arcipelago che considera i migranti cinesi giunti in città come intrusi con episodi di vera propaganda al limite della discriminazione etnica o razziale: i “cinesi continentali” dipinti come “locuste” che si muovono a sciami, che mangiano negli autobus e nei parchi pubblici, che strepitano e che infine distruggono il delicato equilibrio di un territorio angusto e molto popolato. Sondaggi e analisi sono concordi nell’evidenziare un’accentuazione progressiva del senso di diversità tra i continentali e gli abitanti delle isole quasi che si creassero nei fatti due Cine.

Soprattutto nel 2012, anno del Dragone, molte famiglie hanno programmato una nascita scegliendo non solo la propizia congiuntura temporale (il Drago è il segno più fortunato) ma anche il luogo dove far nascere il figlio; le facoltose famiglie cinesi (che ormai si contano a milioni) non hanno disdegnato di spendere cifre esorbitanti per avere figli a Hong Kong: una condizione che permetterebbe loro il diritto alla residenza e quindi la possibilità di frequentare scuole di alto livello.

Per frenare "il turismo dell'utero", per il 2012, il governo del territorio ha stabilito che gli ospedali privati non offrano più di 3400 posti letto per persone non residenti. Lo scorso anno erano 10mila. Ma in tutto, le nascite di bambini da madri cinesi è stato di 31mila. In Hong Kong ogni anno nascono circa 90mila bambini. Insomma la “cinesizzazione” continua, ma l’arcipelago vuole lottare per resistere.

 

 

 

 

* E' giornalista e si occupa per lo più di argomenti di politica e di cultura. E' direttore del quotidiano online unimondo.org, editorialista per il quotidiano Il Trentino, il mensile QT - Questotrentino, il giornale delleAcli Trentine e il settimanale dell'arcidiocesi di Trento Vita Trentina.