L’enigma del Senato. Corsi e ricorsi della storia repubblicana

Il paesaggio che si apre sul percorso di riforme avviato dal Governo ha contorni tutt’altro che lineari, segnato com’è dalle numerose critiche (spesso interne alla stessa maggioranza) che stanno accompagnando il processo di revisione del bicameralismo e la modifica del Titolo V della carta costituzionale. Per rimanere nell’ambito strettamente politico, e tralasciando dunque le posizioni espresse da intellettuali, esperti e commentatori, si contano numerose posizioni critiche: da quella di Bersani, che nella combinazione tra la riforma della legge elettorale e quella del Senato rinviene una potenziale minaccia per il sistema democratico e propone una significativa modifica della legge elettorale, a quella del senatore PD Chiti, che ha presentato un disegno di legge alternativo in cui, pur espresso su base regionale e ridimensionato nel numero dei componenti, il Senato resterebbe elettivo; ancora, da quella di alcuni esponenti di Forza Italia che reclamano l’elettività della seconda Camera, alla proposta di Civati, che punta a una composizione mista del Senato, in parte elettiva e in parte rappresentativa del sistema regionale.
Un mare di voci e proposte che accanto al carattere frammentario e conflittuale della politica nostrana, incapace una volta di più di giungere a una visione condivisa e di rinnovare – rilanciandolo – il patto costituente, sembrerebbe esprimere l’esigenza, apparentemente condivisa dall’intero spettro politico, di un allontanamento dalla cultura costituzionale che all’origine dell’esperienza repubblicana aveva optato per la prospettiva bicameralista. In verità molte delle proposte di riforma che circolano in questi giorni non sono un superamento delle posizioni discusse alla Costituente, ma una loro parziale riproposizione. Prima che prevalesse il modello del Senato poi cristallizzato nel testo costituzionale, si era infatti dibattuto a lungo sull’opportunità di affiancare al modello della rappresentanza politica in senso stretto (quello della Camera) un sistema di rappresentanza degli interessi e delle realtà territoriali. I lavori della Seconda Sottocommissione testimoniano come i costituenti avessero ben chiaro che il Senato non potesse essere una “mala copia” o un semplice “doppione” della Camera, e che dunque fosse necessario individuare dei meccanismi elettivi che garantissero la complementarietà e la diversità delle due Camere. A molti fu chiaro che dovessero essere il criterio territoriale (a base regionale) e quello degli interessi (la rappresentanza delle forze produttive e professionali) a guidare la definizione dell’assetto del Senato, che qualche costituente (Lussu in particolare) propose senza successo di chiamare “Senato delle regioni”. Ne derivarono articolate discussioni che investirono naturalmente anche i procedimenti di elezione dei senatori. Un punto di coagulo, pur sofferto, tra il modello elettivo diretto e quello indiretto fu individuato nel sistema di nomina di un terzo dei senatori da parte dei consigli regionali e dei rimanenti due terzi da parte degli elettori. Il modello elettivo di secondo grado, ancorché parziale, figurava pertanto già nel progetto di Costituzione discusso in aula nei primi mesi del 1947.
La mancanza di una tradizione regionalista da un lato e l’ingombro dell’esperienza corporativa fascista dall’altro condussero a un progressivo indebolimento del progetto di un Senato inteso come espressione delle autonomie territoriali e della rappresentanza organica degli interessi e dei corpi sociali, superato definitivamente con la proposta Nitti del 7 ottobre 1947, che prevedeva il suffragio universale e diretto con il sistema del collegio uninominale. A condizionare la discussione plenaria che portò all’abbandono del criterio degli interessi e al sostanziale svuotamento di quello regionale non furono però solo le pregiudiziali ideologiche delle principali forze politiche; a suggerire di seguire la via del bicameralismo perfetto fu in buona parte il timore, condiviso da DC e PCI secondo una strategia politica speculare, che il monocameralismo non fosse sufficiente a esorcizzare il rischio di un eccesso di potere da parte della forze politiche premiate dalle elezioni.
Le complesse e articolate discussioni che si erano sviluppate nel corso dei primi mesi di attività dell’Assemblea Costituente, e che a lungo avevano puntato a fondare l’istituzione della seconda Camera nel nuovo assetto regionale e nel sistema di rappresentanza delle “forze vive” della società, si spensero dunque rapidamente. Gli echi di alcune di esse, comprese quelle legate ai senatori non elettivi scelti dal Presidente della Repubblica, sono tornati a circolare nel dibattito politico attuale. L’obiettivo, in un contesto storico così diverso, non è certo quello di tornare a dare voce alla cultura dei nostri costituenti, ma il fatto che parte di quelle riflessioni non abbia smesso di risuonare nel discorso pubblico testimonia che per quanto sofferti e suscettibili di necessari aggiustamenti, i tentativi di ridefinire i contorni di una parte fondamentale del nostro sistema istituzionale avviene per certi versi in continuità con la cultura politica che ha gettato le basi della nostra esperienza repubblicana.
di Paolo Pombeni
di Michele Marchi