L’enigma del centro
È più o meno dall’inizio della storia della nostra repubblica che discutiamo della questione del centro in politica. In origine fu la Democrazia Cristiana ad intestarsi questa definizione per il riferimento al fatto che il partito dei cattolici non intendeva schierarsi né con il liberalismo né con il socialismo marxista, entrambe ideologie condannate dalla Chiesa fra Otto e Novecento. E fin dall’inizio ci fu un’aspra contesa nella DC se a seguito di questo si dovesse però inclinare a destra o a sinistra. Chi è vecchio abbastanza (pochi ormai) o chi ha studiato un po’ di storia sa quanto questa diatriba sia stata dura fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del secolo scorso.
Quasi in contemporanea si era posta la questione di un “terzo polo”, considerando che quelli rilevanti erano ormai due, la DC appunto e il blocco di sinistra (PCI+PSI) che aveva però problemi di coesione al suo interno. Fu allora che repubblicani, socialdemocratici e qualche pattuglia di liberali critici con la destra presero a considerarsi una “terza forza” alternativa ai due blocchi.
La questione si è trascinata in continuazione in un paese come il nostro che da un lato si era convinto che il “bipolarismo” fosse la vera politica moderna (e nostalgie in quella direzione ce ne sono ancora) e dall’altro non riusciva ad uscire dalla tradizione di un sistema diviso in “tribù politiche” poco disponibili a farsi assorbire nell’agognato dualismo. Sembrava che si fosse arrivati alla meta con lo scontro fra berlusconismo ed antiberlusconismo (e basterebbe questa definizione per vedere la modestia del confronto), ma non fu così. I due campi si rivelarono ben presto semplicemente coalizioni fra le numerose tribù politiche, alcune di qua altre di là, con instabilità perenne e continua tensione a tornare al tradizionale quadro del sistema di coalizioni, che, siccome dovevano mettere insieme cose che insieme stavano male, vennero da taluni poeticamente definite “campo largo”.
La relativamente inaspettata vittoria netta di una coalizione di destra-centro e la corrispondente sfarinatura della sinistra-centro ha portato a vagheggiare un ritorno del bipolarismo, che può avere la faccia tendenzialmente gentile dei conservatori contro i progressisti, quella più ideologica dei reazionari contro i radicali, quella fantasiosa del mito pseudo storico dei fascisti contro gli antifascisti. In questa sorta di ritorno al brodo primordiale traggono vantaggi tutti gli autoproclamati guardiani di questa o quella rivoluzione o semplicemente quelli che hanno capito che se vuoi stare nella commedia dell’arte che caratterizza l’attuale sistema dei media devi metterti una divisa molto riconoscibile perché solo così sei ritenuto un personaggio che ha diritto a stare nel quadro.
Il fatto è che, come si è da tempo sostenuto nelle analisi di storici e scienziati politici, in un sistema elettorale competitivo a base bipolare vince chi riesce maggiormente ad espandersi verso il centro dell’opinione pubblica, facendo capire a quegli elettori che i rispettivi estremi servono per una spruzzata di cosiddetta identità, ma che in realtà sono sceneggiata, perché la politica, se si vuole farla, richiede altri approcci.
Sia nel blocco egemonizzato dalla destra che nel confuso universo che vorrebbe ritrovarsi sotto la bandiera della sinistra esiste oggi una notevole difficoltà ad espandersi verso il centro. Nel primo caso una leader come Giorgia Meloni magari lo vorrebbe anche, ma ha la Lega alle costole e deve sottrarsi al ricatto di quelli che pensano che solo col radicalismo nostalgico vecchio stile possono occupare i posti che il cambio di maggioranza rende liberi. Nel secondo caso l’espansione al centro è impedita dall’eterna diatriba tipica delle sinistre in crisi in cui si fa a gara ad epurarsi a vicenda in nome di una presunta fedeltà all’ideale, fedeltà sulla cui certificazione per altro non si capisce più bene a chi toccherebbe esprimersi.
La consapevolezza di questa situazione ha portato alcuni “imprenditori politici” (come oggi si usa dire) ad immaginare che si potesse occupare con un prodotto nuovo l’area di quegli elettori che non vogliono assoggettarsi alla commediola dell’arte dei buoni che lottano coi cattivi. La debolezza di questa impostazione sta nel fatto che la formazione politica che vuole occupare il centro per essere attrattiva deve sia offrire un progetto credibile di ristrutturazione del quadro politico sia mostrare la forza sufficiente, se non per realizzarlo a breve, per durare nel tempo necessario perché si possa provare a farlo.
La difficoltà di mettere in campo questi requisiti spinge alla classica via di fuga che non è nuova nella nostra storia: il centro, piccolo e manovriero, si offre come il complemento necessario per portare alla vittoria questo o quel “polo”, oppure si mette a disposizione per fare un’attività di lobbismo parlamentare che impedisca ad entrambi i radicalismi di arrivare alle ultime conseguenze di scassare il sistema politico.
Temiamo sia troppo poco per costruire davvero un “terzo polo” che sottragga il paese alla deriva degli estremismi demagogici che sono tipici di ogni fase di transizione storica (e quella che stiamo vivendo lo è). Ci vorrebbe un lavoro di scavo intellettuale, di riformismo “pensato” e non ridotto a slogan a cui gli imprenditori politici sono poco interessati, perché sono investimenti sui tempi medi, se non lunghi, e nell’economia del prendi e fuggi finanziario non è roba che va di moda. Quanto all’illusione di accreditarsi come i tattici del colpo di mano parlamentare ci pare non tenga conto del ruolo sempre più marginale che ha il parlamento e del fatto che anche dal punto di vista della “rappresentanza” ormai si va ben oltre le Camere, perché ci sono regioni ed enti locali, sindacati e corporazioni varie. Essere presenti solo a Montecitorio e a Palazzo Madama non è abbastanza per incidere sulla vita politica italiana, e, torniamo sempre lì, una presenza capillare e diffusa non si conquista nei tempi brevi.