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27 marzo 2024
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L’enigma del “civismo” nella politica italiana

Paolo Pombeni - 03.11.2015
Alfio Marchini

Adesso sembra che lo cerchino tutti: il candidato “civico” è diventato l’asso nella manica di un sistema politico in crisi profonda. Anzi c’è già chi, vedi Alfio Marchini a Roma, si è appropriato della targa e la presenta come un’alternativa tanto alla destra quanto alla sinistra. Per sovrappiù si dice che lo stesso M5S nella battaglia per il sindaco della capitale si starebbe orientando su una personalità esterna al suo movimento (circola, non sappiamo con quale fondamento, il nome del giudice Ferdinando Imposimato). Naturalmente una simile caccia al “civico” sembra in atto per Milano e Napoli, ma forse anche per altre città che devono andare al voto.

Il fenomeno merita qualche riflessione. La prima, se non si ha la memoria corta, potrebbe riguardare quel fenomeno che in passato è stato etichettato come “americanizzazione” dei nostri partiti. SI ritiene infatti che negli USA i candidati vengano presi dalla società civile, perché in quel contesto i partiti sono macchine elettorali che non hanno le sezioni, la vita sociale permanente e insomma quelle caratteristiche che erano tipiche dei nostri tradizionali partiti di massa. Le cose sono come sempre più complicate, ma certamente in quel contesto ad ottenere le candidature non sono segretari o funzionari di partito, che lì o non esistono o si occupano appunto della “macchina organizzativa” e non sono titolari di un diritto a ricoprire le cariche politiche rilevanti.

Dopo avere malamente imitato il sistema delle primarie questo sbocco era inevitabile? Per la verità le nostre primarie sono un meccanismo ambiguo, dove a volte ha vinto l’outsider a volte hanno prevalso i candidati di apparato contro gli outsider. Anche nel primo caso però di norma l’esterno vinceva solo se una quota rilevante del partito decideva di sostenerlo (così è stato, come adesso dicono tutti, anche nel caso di Marino).

Certamente, ed è la seconda riflessione da fare, il nostro personale politico ha in molti casi perso la propria credibilità. Non sempre, perché basterebbe il caso di Matteo Renzi, che rimane saldamente ben piazzato nelle classifiche di gradimento, per mostrare che un politico che ci sa fare non ha problemi a raccogliere consenso, ma si potrebbero aggiungere casi come Salvini e la Meloni, che non possono passare per esponenti della “società civile”. Detto questo, è indubbio che al momento quella è l’eccezione, mentre come “regola” sembrerebbe si stesse imponendo quella del soggetto selezionato fuori dei ranghi dei politici di professione.

E’ una “narrativa” già inaugurata da più di vent’anni da Berlusconi, a cui però non è riuscito di renderla la norma neppure a casa sua. In parallelo, gli altri “imprenditori” che sono scesi in campo (Della Valle, Passera) non pare che al momento stiano mietendo successi, ed il “grande tecnico” messo al potere per scelta dall’alto, cioè Monti, si è rivelato politicamente piuttosto inconsistente al punto che ha inventato un partitello che è stato un autentico flop.

Eppure il sogno di una salvezza alla crisi della politica da cercare fuori dagli uomini pubblici allevati in serra dai partiti continua a tenere banco. Le ragioni psicologiche per tutto ciò non sono difficili da individuare. Credere che questa sia in sé una soluzione automatica della crisi è una pura illusione.

Innanzitutto la politica richiede capacità specifiche: saper attirare su di sé consenso, guidare apparati complessi, intuire al volo i problemi, saper studiare in profondità le situazioni, avere personalità , ma non essere narcisisti egocentrici. Queste si trovano certo anche fuori dai partiti, ma il problema è che per esplicare il loro valore hanno bisogno di un “contorno” che oggi manca.

Innanzitutto un buon politico ha bisogno di poter far conto su un ottimo, o almeno buono apparato burocratico. Assurdo pensare che possa fare tutto lui e tenere da solo dietro a tutto. Ebbene oggi quegli apparati in troppi contesti sono disastrati: quando non sono stati attaccati dal cancro della corruzione (piccola o grande che sia), sono mortificati da anni di selezioni clientelari che hanno abbassato notevolmente il loro livello qualitativo. Esistono ovviamente eccezioni, anche notevoli, ma appunto tali sono.

Un “vertice” (sindaco, presidente di regione, ecc.) che non possa contare sulla sua burocrazia è un morto che cammina. Inoltre egli avrebbe bisogno di strutture che gli mantenessero i contatti con quella società vasta che deve governare, che lo informassero in anticipo del sorgere dei problemi, che lo aiutassero a far maturare nei  cittadini  la pazienza che richiede il raggiungimento di obiettivi complessi. Tutte cose che un tempo facevano, più o meno bene, i partiti e che oggi le “cose” che mantengono quel nome non sanno più fare (anche perché troppo impegnate nelle loro lotte di fazione interne).

Ecco perché il “civismo” declinato alla buona così come stiamo facendo serve a ben poco. E’ sacrosanto costringere i partiti ad uscire dalla miopia di pensare che, disastrati come sono, abbiano sempre sottomano gli uomini giusti per la gestione della cosa pubblica. Bisogna però in parallelo spingerli a quella riforma interna che li porti ad essere strumenti efficaci per sostenere le nuove classi dirigenti nel compito di rifondazione della nostra politica che viene loro richiesto.

Altrimenti i “civici” cooptati dai partiti finiranno per assimilarsi rapidamente a sé e qualsiasi rinnovamento andrà a farsi benedire. Del resto è una storia che già abbiamo visto.