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27 marzo 2024
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L’elettore “irrazionale” e insondabile

Ugo Rossi * - 06.12.2014
Elezioni amministrative 2014

Qualche volta si usa la metafora del marketing per spiegare la politica. C’è una domanda (gli elettori) e un’offerta (i candidati, le liste), perciò non sembrerebbe assurdo applicare questo termine anche alla politica. In qualche modo è vero: la politica è anche un mercato. In fondo, cosa succede durante le elezioni? Un certo numero di candidati si presenta sul mercato elettorale e cerca di ottenere il massimo dei voti. Gli elettori hanno i voti e li spendono alle condizioni date. L’oggetto dello scambio tra domanda e offerta è il potere. Tutto tranquillo perciò con l’analogia?

In qualche modo non è così: sotto certi aspetti la politica è un mercato (quello del consenso) che agisce come tutti gli altri mercati. Ma c’è un elemento che rende il mercato della politica diverso da tutti gli altri: la difficoltà di assumere la razionalità in senso classico e “mercatista” come guida dei comportamenti politici. Siamo sicuri che l’elettore sia paragonabile, in fatto di razionalità, al consumatore ipotizzato dai manuali di economia?

Da quanto si è potuto constatare, l’italiano medio è un consumatore elettorale “irrazionale” e la cattiva performance di chi governa non sempre è la questione su cui egli si interroga. In altri termini, è difficile che un elettore vada a votare avendo in mente programmi, o performance alternative di governo, da lui valutate analiticamente. Dunque, la razionalità dell’elettore, almeno per questo aspetto è tutta da dimostrare. In secondo luogo, e ben più importante, a differenza del consumatore che agisce in un vero mercato, l’elettore non ritiene che la sua scelta personale, il suo singolo voto, pesi abbastanza da cambiare il risultato finale. Nei comportamenti elettorali questa percezione, talvolta esplicita, talaltra implicita, è l’elemento che distingue il mercato della politica da ogni altro mercato. Naturalmente tutti sanno che il risultato finale sarà la somma di una moltitudine di singoli atti, ma proprio perché di moltitudine si tratta, la sensazione è che le conseguenze della propria scelta solo in via molto lontana si ripercuoteranno sul risultato finale: una percezione che, da parte dell’elettore, rafforza l’idea dell’inutilità di essere razionali.

Se l’elettore è libero da una visione utilitaristica, a quali altri suoi interessi risponde nel fare la scelta elettorale? È facile pensare che a guidarlo siano le sue concezioni del mondo e, soprattutto, le sue emozioni. Nella mente degli elettori l’emozione e l’ideologia sopravanzano di gran lunga rispetto alla razionalità. Ciò che viene sentito come migliore, è migliore. E se questo sentimento è fondato su valori radicati e identitari, allora è ancora più forte.

La razionalità della politica è perciò quella di mettersi in relazione con le onde emotive che nascono dalle varie visioni del mondo trasmesse dalla società. Ma questa razionalità è l’esatto opposto rispetto all’ideal-tipo dell’elettore razionale, che guarda con obiettività tutti i programmi, valuta le loro conseguenze micro e macro e poi decide votando, come se il voto fosse l’attribuzione di un rating a un candidato o a un partito.

Il voto, invece, è l’espressione più forte, più compiuta, della volontà e dell’identità delle persone.

Va da sé che il tema è straordinariamente complesso, investe tutti, non solo la politica, e non può essere liquidato con l’ennesima dichiarazione di intenti.

Per non cedere il passo al senso di impotenza o non limitarsi alla sola denuncia, la partita potrebbe essere comunque giocata su tre livelli. Il primo, quasi naturalmente, è l’investimento in consapevolezza e in attitudine a guardare al collettivo, anziché al particolare, e al futuro, non limitandosi al giorno per giorno. Quindi, premiare chi dimostra, in politica come nella vita, di saper far crescere questa cultura virtuosa e il capitale sociale che essa genera. Secondo, la trasparenza. Non intesa come fonte permanente di scandalistico pettegolezzo o come alimento dell’invidia collettiva. La trasparenza è un presupposto essenziale per valutare la sensatezza e la credibilità delle scelte pubbliche. Una trasparenza che deve essere ben spiegata e altrettanto ben capita. Infine il merito. Si può e si deve fare di più, soprattutto per rompere quei circuiti mortificanti che premiano le appartenenze o i sistemi di interesse piuttosto che la qualità e il rapporto costi benefici.

Su questi tre livelli è necessario lavorare congiuntamente e con coraggio, non limitandosi alla responsabilità dei poteri pubblici, che rimane ovviamente primaria, ma estendendo il coinvolgimento anche alle responsabilità della società civile.

 

 

 

* Presidente della Provincia Autonoma di Trento