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La disunione europea e lo smarrimento della sinistra

Riccardo Brizzi - 11.07.2015
Syriza

L'exploit del Partito popolare danese alle elezioni legislative di fine giugno (21%) e l'esito del referendum greco promosso da Syriza hanno riacceso il dibattito sull'ascesa delle formazioni populiste nella Ue. All'indomani dell'ingresso in forza nel Parlamento di Strasburgo in occasione delle europee del 2014, dalla Spagna alla Finlandia forze protestatarie spesso unite soltanto da un fermo rifiuto delle istituzioni comunitarie hanno registrato notevoli successi elettorali o conquistato posizioni di governo. Questo trend ha preso forme diverse. Nel Nord Europa (Svezia, Danimarca, Finlandia) la critica della tecnocrazia e delle élite di Bruxelles è portata avanti anzitutto da un populismo di estrema destra che si propone di smontare o distruggere la casa comune, mentre nei paesi mediterranei a sollevare il vessillo dell'euroscetticismo è in primo luogo una sinistra radicale che - a immagine e somiglianza di Syriza e Podemos - non ambisce a demolire l'Ue ma anzitutto a trasformarla. La crisi ha promosso in Europa due reazioni distinte ma spesso convergenti: un voto «anti-solidarietà» che a Nord si nutre dell'insofferenza verso il lassismo e l'indisciplina dei paesi meridionali, e un voto «anti-rigore» che da Sud denuncia le insostenibili misure di austerità imposte dalla troika e dai diktat di Berlino.

L'incremento del voto di protesta ha contribuito a un generale riavvicinamento tra i tradizionali partiti di governo di destra e di sinistra, che si è politicamente tradotto in una diffusa sperimentazione della formula dell'esecutivo di «grande coalizione», che attualmente governa in ben 11 paesi della Ue (5 governi «misti» guidati dalla sinistra e sei dalla destra) e che è stata riproposta a livello comunitario all'indomani delle europee del 2014 dalla convergenza tra Ppe, S&D e Alde. Se l'ammorbidimento del bipolarismo destra-sinistra confonde le tradizionali linee di frattura politiche (confinate sempre più a fattori identitari, quali la politica di integrazione verso i migranti o i diritti degli omosessuali), esso sembra causare problemi soprattutto a sinistra.

Non solo il gruppo socialista (e il suo erede S&D) ha perso la maggioranza relativa nell'Europarlamento a partire dal 1999 senza più recuperarla ma oggi governi di centro-sinistra governano (al netto delle intese di grande coalizione) in appena sei paesi su ventotto: Francia (in un clima di delegittimazione crescente che coinvolge la presidenza della Repubblica e la maggioranza parlamentare), Svezia (con un fragile governo di minoranza), Lituania, Croazia, Slovenia e Slovacchia. L'impasse strategica è d'altronde testimoniata dal mediocre stato di salute della socialdemocrazia nei principali paesi dell'Ue: esaurimento della Terza via in Gran Bretagna; tormenti dei socialdemocratici tedeschi all'interno di una Grosse Koalition che li penalizzati decisamente più rispetto ai conservatori; popolarità ai minimi di Hollande in Francia e continue batoste elettorali del Ps in tutte le elezioni intermedie; riemergere delle divisioni interne al Pd italiano solo inizialmente contenute dalla personalizzazione del partito attorno alla figura di Renzi, etc.

Negli ultimi anni questo disorientamento si è tradotto anzitutto nell'incapacità di definire un'alternativa credibile alle politiche di austerità e così i partiti della sinistra riformista si sono ritrovati ideologicamente succubi della destra - più credibile nel rivendicare la paternità delle ricette di rigore - e, contemporaneamente, sono stati sfidati alla loro sinistra. Il dato che accomuna destra e sinistra radicale è la capacità di  entrare in sintonia con gli umori della società ben più di quanto sia in grado di fare una socialdemocrazia ancora fiduciosa di poter riannodare le fila del compromesso sociale che aveva accompagnato l'età del boom e della crescita europea.

Se la rinnovata aggressività del radicalismo islamico ha fornito nuovo carburante alla destra nel denunciare la minaccia identitaria portata dall'abbattimento delle frontiere e da un'immigrazione incontrollata, la crisi ha contemporaneamente portato acqua al mulino di una sinistra radicale che appare più credibile della socialdemocrazia nel coalizzare i desideri di rivalsa, attraverso una retorica che pareva confinata all'armadio dei ricordi ma che ha un forte potenziale divisivo:  gli sfruttati contro gli sfruttatori, i beneficiari della globalizzazione contro gli emarginati, i banchieri contro i lavoratori, la democrazia diretta contro la democrazia rappresentativa, etc.

Una possibile chiave di lettura per interpretare la crisi della sinistra riformista è che la crisi abbia profondamente minato la coesione della società europea, che ha raggiunto un grado di disunione e di sfiducia tali da privare qualsiasi progetto riformista delle basi di consenso necessarie ad un nuovo compromesso collettivo.