La destra dei piccoli interessi e la sinistra delle utopie
Nonostante il prestigio di Draghi, riaffermatosi anche in questi ultimi giorni a livello europeo e internazionale, la maggioranza del suo governo rimane inquieta, per non dire traballante. Si dirà: ma è sempre stato così in tutti i governi di coalizione, figurati in quelli di coalizione amplissima, basta rileggersi un po’ di storia della nostra repubblica. Indubbiamente è vero, gli esecutivi che si reggono su accordi fra molti partiti debbono inevitabilmente tenere conto del fatto che in un regime democratico sono a termine e i partiti che li sorreggono non possono fare a meno di prepararsi al loro futuro una volta che cesserà quell’esperienza.
È ovvio che quanto più è “anomala” la coalizione, tanto più sarà viva la preoccupazione dei partiti di posizionarsi al meglio per competere quando finirà il tempo dell’anomalia. Dunque da questo punto di vista era da aspettarsi che fosse problematica la convivenza in una compagine molto articolata come è la maggioranza che è stata “costretta” a sostenere il governo Draghi. Certo sarebbe stato normale aspettarsi un po’ più di stile da parte di Salvini, ma anche i Cinque Stelle, nonostante lo stato comatoso in cui si trovano, non mancano qua e là di esibire le loro bandierine. Sulle fughe in avanti, per usare una definizione bonaria, di questo o quel ministro dei vari partiti conviene stendere il classico velo pietoso.
C’è però un aspetto che conviene rimarcare: la differenza di strategia che la destra e la sinistra stanno predisponendo per il dopo Draghi, ma intanto per tutte quelle competizioni locali (vedi le elezioni d’autunno) che ne costituiranno il prologo. La distinzione sembra da un certo di vista convenire ad entrambi e pazienza se indebolisce il governo Draghi sul piano internazionale. Perché il problema centrale è questo: nella difficile interlocuzione con Bruxelles il tema di fondo è stata proprio la scarsa credibilità che l’Italia riveste quanto a capacità di tener fede ai programmi che propone. Il premier si è imposto in Europa col classico “credete a me” e nell’immediato ha ottenuto la fiducia, perché è difficile negarla a lui, ma tutti continuano a pensare a cosa succederà quando il suo esperimento giungerà al termine (forse fra un anno o forse fra due).
Salvini non si pone il problema occupato com’è a rincorrere consensi ad ogni costo. È qui che la destra torna a giocare le sue carte storiche: presentarsi come il difensore e promotore dello status quo, del vecchio mondo che non c’è da temere finisca fintanto che ci sarà lei. La battaglia contro il cosiddetto coprifuoco e in genere contro le chiusure è emblematica in questo senso. Il leader leghista, ma anche la Meloni, scommettono sul fatto che in sequenza non sarà possibile far altro che riaprire. Se chi predica cautela verrà smentito sarà per loro un trionfo. Se per caso andasse male potranno sempre dire che è colpa di qualche imprevisto, ma che almeno grazie a loro c’è stato un periodo di … tregua per rendere sopportabili nuove restrizioni.
Più o meno su tutti i temi la destra procede facendosi paladina di una serie di piccoli e medi interessi, spesso miopi, che però allargano il consenso perché sono in grado di presentarsi come prova di un sano realismo nell’affrontare i problemi. La sinistra cade nella trappola, secondo un trend che anche questo è storico, contrapponendo al “realismo” della destra, che giustamente denuncia come falso, un vago utopismo. Quando Salvini può rinfacciare a Letta che mentre lui parla di problemi degli italiani, l’altro presenta progetti per il voto ai sedicenni e per lo ius soli, si coglie subito la debolezza di una sinistra che non riesce ad assumere il duro linguaggio del realismo serio.
La radice di questa situazione, oltre che nella confusione ideologica che connota quelle parti, sta nell’eterna domanda di tenere insieme il famoso “campo largo”. Questo significa, tanto per chiamare le cose col loro nome, volersi mantenere in stretto contatto sia con i Cinque Stelle che con l’arcipelago più che confuso della estrema sinistra: cioè con formazioni che hanno fatto dell’utopia il loro marchio di fabbrica.
Fino a qualche tempo fa questa situazione non era più drammatica di tanto, perché anche la sinistra aveva la sua ambiguità nell’essere di governo e di lotta. Sul primo versante sosteneva la componente produttiva del paese, ma nei fatti e senza darlo a vedere. Sul secondo flirtava con gli utopisti con molte parole e molto pochi fatti. Adesso però il primo terreno è stato occupato dalla componente “tecnica” del sistema delle élite, di cui Draghi è un chiaro esempio, per cui la necessità di riferirsi al PD come sostegno alla governabilità del sistema si è molto affievolita (e quel partito ha fatto anche il possibile per mettere in secondo piano molti suoi esponenti che poteva accreditarlo su quei fronti). Questo lo ha appiattito sul versante dell’utopia, che è quella classica cosa che funziona bene quando con la pancia piena e un focolare caldo puoi fantasticare sul futuro, ma che funziona male quando anche solo cominci a dubitare che le due condizioni possano perpetuarsi.
La possibilità che la destra possa divenire la componente egemone del sistema comincia a diventare ipotizzabile e pensare di evitarla con l’ammucchiata degli utopisti è una strategia molto debole: quanto meno perché fino ad oggi non ha mai storicamente funzionato. È dunque necessario che la sinistra scenda sul terreno del confronto con la destra imponendo la superiorità di chi sa progettare realisticamente un futuro sostenibile senza fughe in avanti, ma al tempo stesso convincendo i cittadini che la restaurazione del passato è anche quella una pericolosa utopia da cui guardarsi.
di Paolo Pombeni
di Francesco Domenico Capizzi *