La Democrazia e i diritti dei lavoratori. Un anniversario da ricordare
Il 20 maggio 1970, 50 anni fa, entrava in vigore la legge 300, comunemente definitiva Statuto dei Lavoratori. Fu un evento di straordinaria importanza perché, come si è spesso ripetuto, la legge introduceva finalmente lo spirito della Costituzione anche nell’impenetrabile e autoritario mondo del lavoro. Il big bang del ’68 e soprattutto la conflittualità nelle fabbriche durante l’autunno caldo erano stati determinanti nel condurre in porto un progetto a cui gli esponenti del riformismo più radicale del Partito socialista (Giacomo Brodolini e il giovane Gino Giugni, solo per fare due nomi) e della Democrazia Cristiana (Carlo Donat Cattin su tutti) stavano lavorando da tempo. Non era più una questione di innovazione degli orizzonti del diritto del lavoro, ma di una vera e propria cesura storica nelle vicende dello Stato italiano perché con lo Statuto si ponevano le basi per l’integrazione all’interno del sistema politico e sociale italiano del ribollente universo del mondo del lavoro. Quella legge può dunque considerarsi a tutti gli effetti, con il senno di poi, un successo della classe politica dell’Italia repubblicana perché aveva dimostrato come fosse in grado di confrontarsi con il problema dei problemi di un regime democratico: il governo della conflittualità del lavoro. Non è un caso che cinquant’anni prima, negli anni ’20, la classe politica liberale aveva fatto naufragio proprio sugli scogli dell’incapacità di gestire l’ondata di protagonismo operaio e bracciantile sollevatasi dopo la fine della Prima guerra mondiale e la vittoria della rivoluzione bolscevica in Russia. Se un sistema democratico è in salute dovrebbe sempre riuscire ad integrare le pressioni sociali che si presentano sotto forma di lotta di classe e di rivendicazioni sindacali. Per tale motivo è giusto ricordare che ancora oggi lo Statuto dei Lavoratori va considerato una prova di maturità della Repubblica italiana che non solo si era dotata, nel 1948, di una costituzione molto avanzata, ma stava anche cercando, 22 anni dopo, di declinarla democraticamente nei diversi ambiti in cui non era ancora stato possibile attuarla. Un ventennio per introdurre un nuovo e più democratico modo di organizzare il mondo del lavoro sembra, anzi è, un’eternità, ma va tenuto conto che costituzionalizzare le dinamiche intrinsecamente autoritarie delle relazioni tra imprenditori e lavoratori fu un’impresa ciclopica. Non è dunque un caso che negli stessi mesi in cui entrava in vigore la legge 300, venne anche approvata quella sul referendum e furono rese operative le Regioni. La promulgazione dello Statuto va considerata più una conquista nella sfera dei diritti e delle libertà dei cittadini che una affermazione di classe (non dimentichiamo tra l’altro che i deputati comunisti si astennero nel momento del voto della legge). Lo “scongelamento” della Costituzione, preludio ad una stagione di grande cambiamenti politici e sociali, non poteva non provocare una reazione di tutti gli interessi lesi dalle nuove, disordinate, aspirazioni democratiche e dall’estendersi di un protagonismo individuale che spesso negli anni si sarebbe dimostrato debole se non velleitario. I conati eversivi della destra stragista e golpista erano comunque esplicitamente finalizzati al tentativo di mettere un argine a tali cambiamenti come dimostra in modo esplicito l’avvio, proprio allora, di quella - all’epoca oscura, ma ormai chiarissima - fase che avrebbe preso il nome di strategia della tensione. Lo Statuto come è ovvio non ha messo fine al problema. Che non sia scomparsa la tentazione di pensare il lavoratore come puro fornitore di profitto è non solo logico, ma persino naturale nelle dinamiche di un modo di intendere il capitalismo che, soprattutto in alcuni settori, non rinuncia al suo istinto primario ogniqualvolta se ne presenta l’occasione. Dipende dal contesto politico e culturale. Nell’ultimo ventennio del XX secolo tale istinto non si è più dovuto nascondere e non è stato più possibile imbrigliare. Si è imposto un immaginario ultraliberista in cui il lavoratore veniva immaginato come una sorta di imprenditore di se stesso, liberamente fluttuante nel mercato e controparte, teorica, dell’imprenditore dentro un rapporto contrattuale fra attori razionali e “alla pari”. In realtà quello che stava avvenendo era la scomposizione della compattezza politica e sindacale che avrebbe nel tempo reso più facile, nei meandri della globalizzazione, parcellizzare una forza lavoro senza memoria. Per questo è quanto mai opportuno ricordare, cinquant’anni dopo, che è la democrazia a dover dettare le regole e tenere sotto controllo l’impulso predatorio di un mercato senza norme e questo lo si può fare solo battendosi per la maggiore estensione possibile a livello planetario della cultura dei diritti (e dei doveri). La globalizzazione infatti sta dimostrando che la massimizzazione degli interessi non solo in ambito finanziario non ha confini e continua a distruggere quella dignità dei lavoratori che lo Statuto aveva l’obiettivo di salvaguardare. Il solo modo di impedire oggi l’ecatombe di dignità e di posti è ampliare quanto più possibile la pratica e la teoria del lavoro qualificato investendo nella formazione permanente di qualunque tipo di “forza lavoro” e dei cittadini. Si tratterebbe di una scelta politica davvero strategica, funzionale non ad una irenica e impossibile pacificazione sociale, ma all’accettazione del conflitto democratico come un valore di cui non bisogna avere paura, soprattutto quando è in gioco il fondamento, lo dice l’art. 1 della Costituzione, della Repubblica italiana.
* Ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bologna
di Paolo Pombeni
di Fulvio Cammarano *
di Francesco Provinciali *