La demagogia e la questione fiscale
Quando non è impegnato coi migranti, green pass, e altro, Salvini si butta volentieri sulla questione fiscale. La sua richiesta di avere un “impegno scritto” a non aumentare le tasse sulla casa nel 2026 è semplicemente ridicola: non solo perché anche in tempi normali (e questi non lo sono) è impossibile prevedere come saremo fra cinque anni, ma perché nessuno sa che maggioranza politica ci sarà allora (come minimo ci sarà stata una tornata di elezioni nazionali) e che governo sarà in carica. Ammesso e davvero non concesso che Draghi possa essere così balordo da infilarsi a sottoscrivere un impegno del genere, non avrebbe nessun valore, non diciamo giuridico, ma neppure politico.
Ciò che tuttavia stupisce di più è che non si riesca mai a impostare un serio discorso sul problema fiscale. Certo ogni tanto qualcuno ricorda che c’è un abisso fra quel che si raccoglie con la tassazione e quel che lo stato spende: secondo l’istituto “Itinerari previdenziali” nel 2019 con l’IRPEF si sono incassati 15 miliardi, per scuola, sanità, assistenza, ecc. se ne sono spesi 174. Ovviamente ci sono altre forme di entrate a cui lo stato può attingere, come la tassazione indiretta, ma nessuno crede che bastino a colmare questo divario, sicché alla fine è tutto debito pubblico, che prima o poi dovrà essere affrontato, se non vogliamo fare bancarotta, o, come più pudicamente si dice, default.
Questa banale verità non si può dire al “popolo” perché i demagoghi ti saltano alla gola: ma come, volete spremere ulteriormente i poveri contribuenti? I quali, sia detto papale, papale, per difendersi da ipotesi di ulteriori tassazioni, sostengono di fatto il diritto all’evasione di una ormai molto larga platea di persone che non pagano proprio nulla, o, se proprio capita, pochissimo.
Emblematica di questa situazione e la caciara che si è aperta sulla antica questione di rivedere il catasto. Tutti sanno che è un criterio di valutazione del patrimonio immobiliare (case e terreni) che non funziona: non solo perché ancorato a parametri di attribuzione del valore che sono superati dai fatti, ma perché è un sistema che lascia fuori milioni di immobili e terreni che semplicemente “non risultano”. Come dire: evasione garantita.
La destra grida all’attentato al sacro bene della casa, lasciando intendere che si tratti della casa di proprietà come abitazione che è solo relativamente un bene economico, perché chi la usa non ne ricava un reddito se non nel momento in cui eventualmente la venda (ma qui interviene un altro tipo di tassazione). In realtà, poiché tutti si affannano a garantire che la “prima casa” continuerà a non essere oggetto di tassazione (giusto o sbagliato che sia da un punto di vista teorico), si tratterebbe sempre di tassare adeguatamente beni immobiliari aggiuntivi all’abitazione, che dunque costituiscono “patrimonio”, cioè ricchezza per chi li possiede.
Ora i calcoli cervellotici che vengono fatti sugli incrementi di tassazione cui questi immobili e terreni sarebbero soggetti in caso di adeguamento delle valutazioni catastali al loro valore di mercato sono viziati da un presupposto tutto da dimostrare: cioè che cambiati i parametri di valutazione si terrebbero ferme le attuali aliquote. Questa è una decisione politica che può anche non esserci, anzi che sarebbe bene non ci fosse: le aliquote andrebbero rimodulate sul gettito che si può ragionevolmente ottenere rispetto alla valutazione del loro valore realistico. Anzi andrebbe detto che così le tasse da pagare possono anche essere diminuite per molti, per un duplice effetto: perché si porta ad un contributo decente tutta quella massa di immobili oggi sottostimati e perché si fanno pagare tutti coloro che sin qui hanno allegramente evaso. Un sistema “equilibrato” consentirebbe una equità fiscale e farebbe guadagnare allo stato senza bisogno di spremere, come oggi avviene, più o meno a casaccio chi non è tutelato da un passato anacronistico.
Possibile che un ragionamento così banale non possa essere presentato all’opinione pubblica? Sì, perché purtroppo ci sono due ragioni concorrenti. La prima è banalmente data dal fatto che coloro che traggono privilegi dall’attuale cattivo sistema non vogliono rinunciarci. La seconda è che la gente non si fida dello stato: troppi pensano che quando si fa una riforma il risultato sia per la mano pubblica approfittarne per guadagnarci sopra il più possibile e dunque finiscono per pensare che sia meglio tenersi quel che c’è, sperando anzi di ridurlo.
Eppure un’operazione verità è assolutamente necessaria da parte della politica. Cercando ovviamente di non cadere nella solita vacua intemerata contro l’evasione fiscale, che non si può combattere a base di anatemi, ma spiegando piuttosto che il riordino fiscale è necessario se non vogliamo vedere crollare tutto sotto il peso del nostro debito. È giusto che nell’immediato, come dice giustamente Draghi, si dia e non si chieda, visto che c’è da rilanciare il circuito economico, ma sarà altrettanto inevitabile prendere in considerazione che una volta rimessa in moto l’economia dovremo fare i conti non solo con l’obbligo di ridurre il nostro enorme debito pubblico, ma anche con la necessità di ripagare una parte dei fondi del Recovery europeo che ci vengono dati non a fondo perduto, ma come prestito.
Mettere mano ad una seria sistemazione del nostro sistema fiscale è un’operazione delicata che va però fatta, se non vogliamo finire in una situazione molto difficile. Ai demagoghi non importa nulla, ma a noi, francamente, importa molto.
di Paolo Pombeni
di Francesco Provinciali *