La corsa inarrestabile degli anti-europeisti di Farage
Lo UKIP conquista il secondo seggio a Westminster
La prima doccia fredda per il primo ministro inglese David Cameron era arrivata lo scorso 9 ottobre, quando il partito anti-europeista di Nigel Farage aveva conquistato il suo primo seggio al Parlamento di Londra, nella persona dell’ex conservatore Douglas Carswell, dopo le elezioni suppletive di Clacton. In meno di due mesi lo United Kingdom Independence Party ha raddoppiato: Mark Reckless – anch’egli un ex tory che ha prontamente dichiarato che diversi conservatori sarebbero pronti a passare nelle fila del partito di Farage – si è imposto con il 42% delle preferenze sulla conservatrice Kelly Tollhurst ferma al 34,8%. L’elezione suppletiva si è svolta, dopo una lunga e agguerrita campagna, lo scorso 20 novembre nella circoscrizione di Rochester-Strood, nel Kent settentrionale.
Tanto Reckless quanto soprattutto Farage hanno subito letto la vittoria alla luce delle elezioni politiche del prossimo maggio: il leader dello UKIP prefigura di poter raddoppiare i deputati che porterà alla Camera dei Comuni rispetto ai 20 ipotizzati all’indomani delle elezioni per il Parlamento europeo. In effetti la corsa dello United Kingdom Independence Party sembra inarrestabile e anche nel caso di Rochester si sono dimostrate vincenti le sue tradizionali istanze da little England: lotta all’immigrazione, difesa dell’identità britannica, promessa di uscire dall’Unione Europea. E non a torto Farage lo ha definito un successo «imponente», nonostante, alla fine, il distacco dai tories sia stato meno ampio di quello previsto alla vigilia del voto da taluni sondaggi; nel ricco Kent, infatti, il collegio di Rochester-Stood, con molte minoranze etniche e un reddito più alto della media, è sempre stato un simbolo dell’Inghilterra conservatrice, un’area tutto sommato meno facilmente accessibile per lo UKIP rispetto a Clacton, nell’Essex, con una disoccupazione stimata intorno al 50%.
L’«umiliazione» di Cameron
Se Farage ha l’ambizione di fare del suo partito l’«ago della bilancia» a Westminster (e non è escluso che vi riesca), per il premier Cameron la sconfitta dello scorso 20 novembre è stata un’autentica «umiliazione»: così l’hanno definita diversi quotidiani britannici, a partire dal Guardian. Si era recato a Rochester ben cinque volte durante la campagna elettorale, aveva mobilitato tutte le figure di spicco del partito, trasformando la piccola cittadina del Kent nella meta di un vero e proprio pellegrinaggio tory; alla fine l’unica, assai magra, consolazione è stata una sconfitta meno travolgente di quella ipotizzata dai sondaggi.
Nei mesi scorsi il primo ministro aveva tentato tutte le strade per contenere il partito di Farage: lo aveva ignorato, ne aveva attaccato gli accenti di razzismo e xenofobia e alla fine, dopo la suppletiva di Clacton, aveva cercato di cavalcare l’onda dell’anti-europeismo proponendo quote di ingresso nel Regno Unito anche per i cittadini europei. Nulla è servito, però, e dopo lo smacco della sconfitta di Rochester, Cameron si è limitato a dichiarare che a maggio i conservatori si riprenderanno quel seggio. Una reazione assai debole, hanno osservato tutti i commentatori; soprattutto se si considera l’enorme impatto psicologico che queste due recenti sconfitte hanno avuto nell’elettorato e nei membri del partito conservatore. I due seggi conquistati dallo UKIP non hanno infatti alterato drasticamente l’aritmetica della Camera dei Comuni, ma hanno dimostrato che il gruppo di Farage potrebbe diventare una forza indispensabile per costituire, in futuro, un governo di coalizione. E dell’eventualità di formare coalizioni o governi di minoranza, dopo il voto del maggio prossimo, se ne sta cominciando a parlare nell’establishment tanto conservatore che laburista. Per il partito tory resta poi lo spettro di nuove defezioni, dopo quelle di Reckless e Carswell, e il fatto che il chief whip Michael Gove le abbia escluse categoricamente non basta a tranquillizzare gli animi.
Un quadro politico sempre più «continentale»
L’ascesa dello UKIP, la crisi profonda del partito conservatore e le difficoltà dei laburisti – segnati da divisioni interne e con il consenso alla leadership di Ed Miliband ai minimi storici (solo il 13% degli inglesi lo giudica adatto a diventare primo ministro, mentre il partito nel suo complesso è al 29%) – consegnano dunque un quadro multipartitico dai tratti tipicamente continentali. Anche se il
sistema elettorale maggioritario secco, impedendo la rappresentanza proporzionale su base nazionale, tende a favorire i partiti più grandi, alle elezioni del maggio 2015 si confronteranno conservatori, laburisti, liberal-democratici e indipendentisti di Farage, senza peraltro considerare lo Scottish National Party che promette di travolgere il Labour in Scozia.
Molti analisti parlano da tempo di una «rivoluzione» in atto nell’assetto politico-partitico britannico, che sta mettendo fine al tradizionale «modello Westminster» fondato su un sistema tendenzialmente bipolare e sull’accentramento del potere esecutivo in governi monopartitici. Anche se dal punto di vista storico l’immagine del «modello Westminster» non è del tutto corretta e la Gran Bretagna non ha mai conosciuto quel bipartitismo perfetto tante volte evocato dai suoi estimatori continentali, vero è che oggi – dopo che già le elezioni del 2010 avevano costretto a ripiegare su un governo di coalizione – la realtà politica d’oltremanica appare stabilmente incardinata su almeno quattro poli.
Ma non è solo il nuovo assetto multipartitico a far «assomigliare» la Gran Bretagna al resto del Continente. La rapida ascesa dello UKIP si inserisce infatti in un trend europeo che negli ultimi anni, complice anche la crisi economica, ha visto crescere enormemente, dalla Francia all’Olanda, dall’Italia all’Austria, i partiti euroscettici o apertamente anti-europeisti. Per gli inglesi, che hanno sempre guardato con enormi riserve (e talvolta aperta ostilità) al processo di integrazione europea, tutto questo non costituisce una novità; ma in prospettiva generale si tratta di un dato che i governi nazionali e le élite di Bruxelles non possono ignorare. Forse l’intero progetto dell’Europa unita va ripensato e sicuramente occorre una politica europea per l’immigrazione più efficace e coerente di quella sin qui svolta. Dal canto loro, Cameron e Miliband dovranno, da qui a maggio, rivedere profondamente le loro proposte politiche e le loro strategie, evitando sia di criminalizzare i cittadini che votano lo UKIP, sia di inseguire Farage sul suo stesso terreno.
di Paolo Pombeni
di Giulia Guazzaloca