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27 marzo 2024
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La Cina riduce l’avanzo commerciale con gli Usa. Occasione per l’Europa

Gianpaolo Rossini - 26.01.2019
Frederic Mishkin

Un accordo tra Usa e Cina su riduzione dazi e accesso al mercato cinese di beni e capitali sembra vicino.  Gli Usa puntano ad un annullamento dell’avanzo commerciale (differenza tra valore di export ed import) dell’ex impero celeste. Anche se si procede su base bilaterale la richiesta degli Stati Uniti segue un principio di reciprocità che è uno dei pilastri dell’azione del WTO, istituzione multilaterale che disciplina il commercio internazionale. Gli squilibri commerciali intraeuropei da oltre due decenni sono invece coperti da una cortina di silenzio, complice il dettato di Maastricht che li ignora. La trattativa tra Cina e amministrazione Trump nonché le dichiarazioni di Juncker sulle dosi di austerità da cavallo imposte alla Grecia dal 2010 sono però un’occasione per ripensare aspetti problematici dell’area euro, anche per non lasciare l’iniziativa a forze destabilizzanti. Ma quali sono i punti da rivedere?

 Il primo tocca proprio i conti con l’estero. Quando l’euro nasce nel 1999 gli squilibri con l’estero sono ritenuti irrilevanti. Moneta unica e mobilità dei capitali consentono di metabolizzare bilance dei pagamenti sofferenti. Effetti su tassi d’interesse, liquidità nei paesi in posizione deficitaria, stabilità finanziaria non preoccupano. Una convinzione questa che è diffusa anche oltre atlantico, pur con qualche dubbio del professor Feldstein e altri. Un rapporto ufficiale del 2007 dell’insigne Mishkin della Columbia University afferma che l’Islanda ha un futuro finanziario roseo. Ha un mini debito pubblico, pari a circa il 20% del Pil, mentre il debito estero, pari al 300% del Pil, non preoccupa. È un piccolo paese che i mercati finanziari coccolano facendo la fila per acquistarne il debito. Secondo Mishkin l’Italia vorrebbe essere nella invidiabile condizione dell’Islanda. È invece piegata da pesanti conti pubblici, anche se quelli con l’estero sono lindi. La storia asfalta l’Islanda che fa bancarotta nel settembre 2008, subito dopo la crisi dei subprime Usa. A Reykjavik fanno la fila ai bancomat vuoti. Spagna e Irlanda del 2011 cadono nella crisi dei debiti sovrani pur avendo conti pubblici migliori della Germania ma, ahimè, conti con l’estero pesantemente in rosso. L’insistenza Usa sulla riduzione dell’avanzo cinese non è una bizzarria di Trump.  Lo squilibrio dei conti con l’estero è una criticità della globalizzazione finanziaria. Quello dei conti pubblici lo è in misura minore perché questione soprattutto interna ad un paese. Uno stato con un forte saldo con l’estero e un consistente deficit pubblico ha liquidità e gode di stabilità superiori di un paese con un mini deficit pubblico e un grande disavanzo con l’estero. Lo prova la storia finanziaria recente e remota. Se facciamo tesoro di tutto questo possiamo iniziare una discussione sui criteri di Maastricht o perlomeno sul fiscal compact. Si possono limare le regole esistenti per tenere conto della situazione finanziaria complessiva di un paese data dalla somma del risparmio pubblico e di quello privato, che è pari allo squilibrio con l’estero. Si può pensare ad una regola che chiede ai paesi con un saldo commerciale positivo (negativo) superiore al 5% per un numero elevato di anni di adottare politiche espansive (restrittive) per ridurre (aumentare) il risparmio netto del paese.  Un saldo commerciale positivo (negativo) significa che una nazione spende meno (di più) in consumi e investimenti di ciò che produce e ha un risparmio netto positivo (negativo) che presta agli (prende a prestito dagli) stranieri. Un paese che risparmia troppo (poco) “ruba” (regala) domanda al resto del mondo e se questo si prolunga nel tempo il principio di reciprocità viene meno. Le recenti e tardive scuse di Juncker riconoscono gravi errori commessi nella crisi greca, nella politica della BCE e indirettamente chiamano in causa regole. L’intervento in Grecia del 2011 è penalizzante e tardivo. Viene coinvolto il FMI. Che non c’entra nulla visto che la Grecia non ha una sua moneta ma è una regione di un’area monetaria con una banca centrale federale, la BCE. È il governo tedesco a volere una garanzia esterna. Non necessaria, umiliante sia per la Grecia che per la BCE. I membri di eurolandia e i mercati comprendono che c’è un grosso baco nell’euro: la sovranità monetaria non è stata trasferita nella BCE ma è in parte evaporata. Alla BCE non è dato né espandere l’offerta di moneta (partirà dal 2015), né comprare buoni greci degradati da agenzie Usa delle quali paradossalmente la FED americana non tiene mai conto. In più nel salvataggio della Grecia e di altri nel Sud e Nord Europa sono chiamati paesi finanziariamente esposti come l’Italia. È quest’ultimo aspetto che apre la seconda strada da percorrere per riformare eurolandia. Quanto il Bel Paese presta e conferisce ai meccanismi di stabilizzazione europea (EFSM) fa salire il debito pubblico lordo, indicatore usato dalle autorità europee. Il che non appare ragionevole perché ciò che conta è il debito pubblico netto visto che in finanza sono le grandezze nette che guidano le scelte. E invece siamo costretti ad usare il debito lordo che non sconta le attività (crediti). Il debito pubblico netto non è una chimera. Dati sono pubblicati da OECD e Cia. Quello italiano è circa il 114% del pil contro 133% di quello lordo. L’uso di questa grandezza non sarebbe sgradito ai mercati finanziari, darebbe maggiore serenità ed eviterebbe privatizzazioni solo per fare cassa. In Grecia, ad esempio, la vendita del Pireo ai cinesi è un’ipoteca sull’intero commercio europeo. In Italia privatizzazioni come quelle delle reti telefonica e autostradale si sono rivelate veri boomerang per lo sviluppo. Invece di un salto in avanti per efficienza ci troviamo fanalini di coda in Europa con gravi danni sia per i cittadini consumatori che per le imprese limitate nella loro crescita da infrastrutture inadeguate. Insomma un’Europa con regole meno dottrinarie potrebbe aiutare l’economia ed essere politicamente più stabile.