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La centralità leghista

Luca Tentoni - 21.07.2018
Di Maio e Salvini

Le prime settimane del governo giallo-verde presieduto da Giuseppe Conte sono state contrassegnate da un notevole attivismo dei due vicepresidenti del Consiglio, in particolare del leghista Matteo Salvini (ministro dell'Interno) ma anche - col "decreto dignità" - del pentastellato Luigi Di Maio (ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico). Mentre prosegue il dibattito che si è sviluppato su una possibile egemonia mediatica e tematica leghista sull'Esecutivo, in questa sede ci sembra più opportuno rispondere ad una domanda molto più semplice e netta: perché, col 17% dei voti (27-30% virtuali, secondo le intenzioni di voto espresse nei sondaggi) Salvini è oggi al centro della scena politica? Una prima risposta, quella che ha dato vita al dibattito fra gli osservatori politici, è che il leader leghista ha imposto la sua agenda ed è riuscito a non perdere il "posto in prima fila" sui giornali e sui social network neppure quando è stato il suo principale alleato di maggioranza a presentare e pubblicizzare gli atti di governo voluti dai Cinquestelle. Anzi, il leghista ha fatto a Di Maio quasi una "controscena" (prima affermando che il decreto sarebbe stato reso "più efficiente e produttivo" in Parlamento, poi usando i toni più duri nello scontro col presidente dell'Inps Boeri, dimostrando - all'occorrenza - di far valere la sua "vis polemica" e il suo peso politico per dare manforte al collega vicepremier del M5s). Ma questa, come si diceva, è solo una spiegazione fra le possibili. Il punto vero è un altro. La Lega, già dalle consultazioni per formare il governo, ha assunto un ruolo centrale nel sistema delle alleanze. Salvini ha sempre due strade a disposizione: restare col M5S oppure tornare col centrodestra (i legami con FI e FdI non sono affatto recisi, soprattutto a livello locale, nelle grandi regioni) e prepararsi a vincere nuove elezioni rendendo marginale il ruolo dei partiti di Berlusconi e Meloni. I Cinquestelle, invece, che teoricamente avrebbero potuto formare una coalizione col Pd e Leu, in realtà non hanno mai avuto questa possibilità: la pattuglia dei deputati e dei senatori renziani non avrebbe mai appoggiato quella alleanza - anche contro l'eventuale, molto ipotetico, parere favorevole della maggioranza del Pd - facendo così mancare i numeri soprattutto in Senato. Allo stesso modo il centrodestra non può andare da nessuna parte senza la trazione salviniana (e di certo non con Renzi, col quale il capo leghista non si alleerebbe mai, così come i Cinquestelle con Berlusconi). Al centro di tutti i giochi possibili, dunque, c'è la Lega di Salvini, il cui 17 o 27% vale tanto oro quanto pesa, perché sono il potere di coalizione e il posizionamento rispetto agli altri attori politici che contano, in questa partita. Salvini è il dominus del governo non solo perché sa usare benissimo i mezzi di comunicazione ed è in grado di imporre facilmente la sua agenda delle priorità, ma soprattutto perché è l'unico a poter far venir meno la maggioranza all'improvviso, provocando lo scioglimento delle Camere e probabilmente ottenendo un consistente aumento dei voti alle elezioni anticipate. Il M5S, che pure parte dal 32% dei voti (un po' meno del 30% nei sondaggi) è in una posizione molto più scomoda: senza Salvini, il "governo del cambiamento" non esiste; inoltre, il "forno" del Pd non è mai stato aperto (e, comunque, non ha mai potuto fornire voti sufficienti, per le ragioni già illustrate) né lo sarà, data la composizione dei gruppi parlamentari dei Democratici e la forza delle varie correnti del partito attualmente gestito da Martina. Questo potere di coalizione della Lega è unito ad un potenziale di "blocco" nei confronti di una (improbabile) ricomposizione delle opposizioni in un fronte comune. I gruppi che hanno votato no al governo Conte (Leu, Pd, FI) o si sono astenuti (FdI) possono al massimo formare alleanze costituite da due soli soggetti (Leu-Pd; Pd-FI, ardua; FI-FdI) ma non unirsi in un fronte comune. L'opposizione di oggi è più debole e divisa di quella del centrismo anni '50 e del pentapartito anni '80 (allora, almeno, c'era un Pci fra il 25 e il 30% dei voti; ora il massimo è del Pd, col 18%). Da un lato, il Pd attende i primi mesi del 2019 per darsi una nuova leadership e definire una linea politica e una strategia; da un altro lato, Forza Italia prova a riorganizzarsi ma perde voti virtuali (cioè intenzioni di voto) mentre FdI è ormai in mezzo al guado fra opposizione e sostegno al governo (sui provvedimenti "di destra" non farà certo mancare i suoi voti a Salvini). E c'è il problema delle amministrazioni locali. Le ultime elezioni comunali e regionali hanno dimostrato che il centrodestra ha la possibilità di aggiudicarsi anche zone che un tempo erano roccaforti del centrosinistra, quindi restare uniti è un vantaggio, anche se Berlusconi deve piegarsi alla supremazia numerica e al peso politico della Lega. Se Forza Italia uscisse dalle giunte regionali ligure, lombarda, veneta e friulana, chi può escludere che nuove elezioni non vedrebbero la vittoria di un'alleanza Lega-FdI? In sintesi: Salvini, col suo 17%, non ha solo una posizione unica di preminenza nella maggioranza di governo, ma ha anche la possibilità di bloccare eventuali processi di coesione dell'opposizione: in primo luogo, mantenendo buoni rapporti con FdI; in secondo, costringendo FI a fare opposizione in Parlamento ma senza "strappare" la già fragile tela del centrodestra, pena l'esclusione degli azzurri dai governi locali del Nord e forse anche del Centro; in terzo luogo, la lunga "pausa di riflessione" del Pd impedisce persino un riavvicinamento fra i Democratici e Leu, quindi rende impossibile la creazione di un "fronte repubblicano" che sarebbe troppo eterogeneo (da Leu a FdI!) oppure più ristretto e realistico ma numericamente non competitivo. In quanto al M5s, perdere l'occasione di avere un proprio rappresentante a Palazzo Chigi sarebbe un grosso problema. Nuove elezioni, ad oggi, vedrebbero molto probabilmente il centrodestra affermarsi ricacciando i Cinquestelle all'opposizione. Il gioco, dunque, è in mano a Salvini, che da qui alla fine della legislatura (ma forse già dopo le europee, se non addirittura prima) può decidere quando e in quale maniera concluderlo. Con buona pace di alleati di governo e avversari.