L'"altro 11 settembre" e il ruolo della Dc
Per le generazioni meno giovani, la data dell'11 settembre è stata legata a lungo ad un evento molto diverso dall'attacco alle Torri Gemelle di New York (2001): il colpo di Stato in Cile (1973). Gli effetti della tragica fine dell'esperienza di Allende e della "via cilena al socialismo" si avvertirono in particolare in America Latina, ma arrivarono con forza ad interessare anche l'Italia, che nel 1973 era ancora circondata, nel sud dell'Europa, da paesi retti da regimi di destra o dai militari (Spagna, Portogallo, Grecia). Il clima di destabilizzazione e l'ipotesi che - dopo la "suggestione greca" del 1970-1972 - vi fosse il pericolo di una "deriva cilena" fu subito ben presente ai leader politici dei due principali partiti italiani. La Dc e il Pci, infatti, stavano percorrendo il tratto preliminare di un lungo cammino che li avrebbe portati al governo Andreotti della "non sfiducia" (1976), ma erano ancora in una fase nella quale il contesto internazionale (gli USA di Nixon e Kissinger ostili alla politica di Moro; l'URSS che si apprestava a contrastare in ogni modo il nascente "eurocomunismo" di Berlinguer), la posizione di ambienti contrari al "compromesso storico" (non solo in settori imprenditoriali e nella destra, ma anche nella stessa Democrazia cristiana) e la crisi economica e sociale del Paese rendevano l'Italia un possibile "anello debole" pronto a cedere al primo tentativo di sovvertire l'ordine democratico. La crisi cilena, nata in un contesto politico e istituzionale diverso da quello italiano, era però un simbolo e, per la Dc, un problema ed equivoco da risolvere in fretta. I democratici cristiani cileni, infatti, si erano sempre ispirati alla Dc italiana, che consideravano una sorta di modello, un partito-guida dell'internazionalismo democristiano (senza contare, inoltre, gli ottimi rapporti che intercorrevano fra leader cileni e italiani). La Dc cilena aveva approvato l'azione delle forze armate autrici del golpe, nella vana e illusoria speranza che l'iniziativa potesse salvare il paese dal caos e dalla guerra civile. Tuttavia, nel partito c'erano esponenti come Radomiro Tomic (candidato del Pdc alle presidenziali del 1970, sconfitto proprio da Allende) che condannarono subito la presa del potere da parte dei militari. In un clima difficile, segnato dalla crisi economica, dal terrorismo, dalla fine della stagione del centrosinistra e dalla complessa e lunga ricerca di nuovi equilibri (per "allargare la base popolare", facendo uscire il Pci da una "conventio ad excludendum" iniziata un quarto di secolo prima) il golpe cileno arrivò come un fulmine su una Dc che molti volevano "processare nelle piazze". Un partito multiforme, che da un lato era considerato dalle sinistre più estreme una sorta di "cavallo di Troia" della conservazione (se non un protettore occulto delle trame golpiste e fasciste nazionali) e dall'altro veniva additato dal Msi come un soggetto politico debole e in declino, pronto a consegnarsi - e a consegnare il Paese - ai comunisti. La storia di come il golpe cileno fu accolto in Italia dalle forze politiche (soprattutto dalla Democrazia cristiana di Fanfani e Moro) è ripercorsa con rigore documentale e linearità da Luigi Giorgi, nel suo recentissimo volume "La Dc e la politica italiana nei giorni del golpe cileno" (ed. Zikkaron, 2018). Con le forze politiche italiane schierate contro i militari cileni (tranne il Msi, che li sosteneva apertamente), il problema del "partito fratello" della Dc italiana si poneva anche per il Pci, che - con gli articoli di Berlinguer su "Rinascita" - si apprestava a porre le basi per un avvicinamento che avrebbe potuto portare (come in effetti avvenne fra il '76 e il '79, sia pure non compiutamente fino all'approdo voluto) al "compromesso storico". Il golpe in Cile contribuì a rendere più difficile la situazione: si era in prossimità, infatti, del referendum sul divorzio (1974) che avrebbe visto Dc e Msi alleati nella battaglia per il "sì" abrogativo. Occorreva, dunque, spazzare via ogni dubbio sulla natura della Dc e sulla tenuta del sistema democratico (nell'ipotesi di un governo Dc-Pci o, addirittura, di una vittoria delle sinistre e di un Esecutivo con i democristiani all'opposizione) di fronte a possibili cambiamenti drastici di scenario. In questa partita, mentre il Msi cercava di accreditarsi come l'unica forza moderata e conservatrice e - per contro - provava a spingere la Dc a destra, le forze alla sinistra del Pci (come il "Manifesto", che titolava: "La Dc di Frei è la Dc di Fanfani") attaccavano i democristiani mettendo in luce le ambiguità del "partito fratello" cileno, per bloccare l'iniziativa di Berlinguer e ancorare il Pci su una linea di totale incompatibilità col "regime democristiano". La vicenda che ci narra Luigi Giorgi è principalmente rivolta al dibattito nella Dc, ma mette anche in luce come il Pci - con Napolitano e lo stesso Berlinguer - cercasse di non usare i fatti cileni per "salvare" non tanto la Dc, quanto una prospettiva politica che si andava faticosamente delineando. Ripercorrendo i legami fra i democristiani italiani e quelli cileni a partire dalla fine degli anni Cinquanta, l'autore del libro ricorda che la prima reazione della Dc italiana fu decisa da Fanfani, con una netta presa di distanza dai toni ambigui del comunicato della Dc cilena. Al "rincrescimento" espresso dal partito sudamericano, il leader italiano faceva rispondere - dal "Popolo" - che “l'espressione di semplice rincrescimento non ci sembra adeguata alla gravità degli avvenimenti”. Come scrive Giorgi, "l'annotazione di Fanfani mostrava una riflessione che si muoveva lungo due binari: uno di merito e l'altro di metodo". Il politico aretino non tollerava la presa di posizione della Dc cilena “perché non la condivideva a livello ideale oltre che politico; relativamente al metodo, capiva che ciò potesse offrire il fianco alla speculazione e all'attacco politico delle sinistre, evenienza da evitare, sia per non indebolire” il partito “nel suo ruolo di forza di governo, sia perché rappresentava un attacco alle fondamenta del ruolo e della politica, fieramente e schiettamente antifascista e antiautoritaria, che la Dc incarnava nel corpo sociale del Paese, al di là e al di sopra di connivenze, contiguità e collaborazioni, pure presenti in alcune sue componenti, con la destra politica, economica e sociale del Paese”. Durante la vicenda, politica e parlamentare, narrata dall'autore, si delinea il ruolo di Moro, ministro degli Esteri e principale fautore della politica di apertura al Pci. Nonostante gli scandali di quegli anni, lo scontro sul divorzio, la crisi di consenso (ma non di voti) che provocarono un lento ma inesorabile scollamento fra la Dc e il Paese (il "processo pubblico", che finirà invece per trasformarsi, nel '78, nel tragico "processo nella prigione del popolo" nel quale Moro sarà condannato a morte dalle Br) la Dc segnò, in quel 1973, un punto a suo favore. Se il golpe cileno era stato ideato non solo per rovesciare Allende, ma anche per "avvisare" leader di paesi democratici che quell'episodio avrebbe potuto ripetersi (anche in altre forme meno apertamente eversive), la Dc "tenne e riuscì a non balbettare, almeno non come ci si aspettava (o come alcuni forse auspicavano e altri temevano) e ad emergere come forza di stabilità (...) conseguente con la propria storia politica di forza cattolico-democratica e antifascista". Secondo l'autore, "proprio nel 1973 la Dc, attraverso la questione cilena, riusciva a respingere, per quello che poteva (anche allentando i rapporti con la Dc cilena) un attacco e una critica che si faranno sempre più stringenti in quegli anni, culminati col sequestro e l'omicidio di Aldo Moro". Non ci sembra azzardato aggiungere che quel tragico 11 settembre di quarantacinque anni fa servì a fare chiarezza anche all'interno della Dc e nei confronti di alcuni interlocutori che l'avrebbero vista volentieri - in caso di necessità - emulare il "partito fratello" cileno. Quel chiarimento aiutò anche il Pci di Berlinguer, che ebbe la riprova di poter contare sull'affidabilità democratica della Dc e sulla tenuta del sistema. Una tenuta che sarebbe stata più volte e in più modi messa alla prova negli anni successivi, ma che si sarebbe dimostrata salda, permettendo al Paese di uscire dalle sabbie mobili degli anni Settanta.
di Luca Tentoni
di Paolo Pombeni