Juncker, Schulz e la Commissione del futuro: tra teoria e pratica
Almeno una novità le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo la hanno già riservata. Ben prima che si materializzino i fantasmi di un’ondata euroscettica o di un ulteriore aumento dell’astensionismo, per la prima volta dal 1979, tutti i principali partiti rappresentati a Strasburgo (eccetto le forze euro-scettiche) presentano un capolista che automaticamente si tramuterà, almeno in linea teorica, nel candidato di ciascun gruppo per la guida della Commissione europea. La novità, almeno in teoria, è rilevante. Per cercare però di valutare l’importanza del passaggio è necessario soffermarsi prima sulla “teoria” e poi sulla “pratica”.
Quando i principali partiti politici rappresentati a Strasburgo hanno deciso di presentare un capolista a livello europeo da tramutare poi nel rispettivo candidato per la guida della Commissione avevano due obiettivi congiunturali e uno strutturale. Nel breve periodo: democratizzare maggiormente l’Unione e lottare contro l’astensionismo. Da un punto di vista sistemico la convinzione di una larga maggioranza dei parlamentari era quella della necessità di riequilibrare il gioco delle istituzioni europee. In particolare tentando un’inversione “comunitaria”, per spezzare la spirale che vede una Commissione sempre più irrilevante, alla stregua di una sorta di segretariato internazionale, complici il Trattato di Lisbona e la conseguente introduzione delle figure del Presidente del Consiglio fisso e dell’Alto rappresentante, la lunga crisi economica (gestita a livello di capi di Stato e di governo e di Bce) e la “sonnolenta” gestione Barroso. Riflettendo sempre in linea teorica non si può omettere che il già citato Trattato di Lisbona è chiaro sulla nomina del Presidente della Commissione. I 28 capi di Stato e di governo designano “tenendo conto dell’esito delle elezioni europee” e al Parlamento europeo spetta la convalida, a maggioranza assoluta. È proprio su questo secondo punto che i partiti europei hanno scelto di “forzare la mano” (qualcuno ha parlato di vero e proprio “colpo di Stato”). Personalizzando la campagna elettorale e cercando una salda legittimazione dei propri candidati/capilista, in definitiva il Parlamento europeo ha lanciato una più globale sfida nella direzione del riequilibrio dei poteri all’interno dell’Ue. Il messaggio è evidente: recupero di centralità di Strasburgo e di Bruxelles (sponda palazzo Berlaymont) da contrapporre allo strapotere del Consiglio europeo, dominato dai Capi di Stato e di governo dei principali Paesi, guidati e organizzato dal “gran cerimoniere di corte” Herman Van Rompuy.
Se dalla teoria però si passa alla pratica e si osservano da vicino in particolare i due candidati che hanno qualche chance di sostituire Barroso, l’impressione è forse che la montagna abbia partorito il solito topolino. E questo per due motivi essenziali. Il primo riguarda i profili politici di Jean-Claude Juncker e Martin Schulz. Il secondo il complicato intreccio tra legittimazione popolare e strutture sovranazionali.
Juncker e Schulz, nati rispettivamente nove e dieci anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale nel cuore ferito dell’Europa della guerra dei trent’anni hanno pochissimo in comune, se non la loro idea che la costruzione europea abbia garantito a lungo pace e prosperità. Oggi che la crisi economica e i tragici eventi ucraini sembrano aver rimesso in discussione entrambi questi capisaldi, cosa possono apportare di innovativo?
Da un lato abbiamo un politico di lunghissimo corso, segretario di stato a 28 anni, poi ministro delle Finanze del suo Lussemburgo dal 1989 e negoziatore a Maastricht nel 1991-92. Primo ministro del suo Paese dal 1995 al 2013, profondo conoscitore dei summit europei (nonché mediatore di rilievo tra Parigi e Berlino), dal 2004 ha poi presieduto per un decennio le riunioni dei ministri delle Finanze dell’area euro. Uomo del compromesso e della mediazione, solo di fronte al volontarismo e all’attivismo di Nicolas Sarkozy ha perso il controllo e per questo si è giocato la poltrona oggi occupata da Van Rompuy. Lasciata la guida del suo Paese, come mai Juncker punta alla Commissione? I ben informati (e i maligni) affermano che in realtà la “vecchia volpe” lussemburghese miri di nuovo al posto di presidente del Consiglio europeo e che lo sponsor sia Angela Merkel. Il ruolo di capolista del Ppe sarebbe solo una cortina fumogena, una sorta di dazio pagato dalla stessa leadership tedesca al mal sopportato “colpo di stato” del Parlamento europeo in vista del voto di fine maggio. Al netto di queste supposizioni, è pensabile che un profilo politico come quello di Juncker possa attrarre un elettorato europeo tutto ripiegato a dibattere di questioni nazionali?
Dall’altro lato della barricata si passa al “tribuno” Schulz, noto alle cronache italiane per l’affaire del “kapò” del 2003, ingiuria rivoltagli dall’allora Presidente del consiglio europeo di turno Silvio Berlusconi. Se si esce però da questa vicenda, una benedizione dal cielo per visibilità e di conseguenza carriera di Schulz, non ci si può esimere dal sottolineare quanto, anche nel caso di Schulz, l’operazione personalizzazione e costruzione del leader carismatico sia piuttosto complicata. La carriera politica dell’attuale presidente del Parlamento europeo è tutta interna appunto all’Assemblea di Strasburgo. Eletto per la prima volta venti anni fa, Schulz dopo dieci è arrivato alla guida del gruppo dei socialisti europei, riuscendo a giocare sulle divisioni interne ai socialisti francesi, che avrebbero avuto diritto alla presidenza in quanto delegazione maggioritaria. Nel 2009 poi il suo secondo capolavoro politico, quando ha negoziato l’accordo spartitorio con popolari e liberali, concretizzatosi nella “staffetta” tra lui e Buzek alla guida del PE. Insomma un mago dell’intrigo all’interno della complicata aula di Strasburgo, ma difficilmente un profilo utile per sbarrare la strada all’astensionismo o al voto anti-sistema.
Anche trascurando la questione dei due profili così insoddisfacenti, come è possibile per i novelli capilista europei cercare una qualche forma di legittimazione popolare reale nel momento in cui poi saranno i Capi di Stato e di governo a decidere su quale nome optare? La contraddizione è evidente se si osservano i faccia a faccia tra i vari candidati (il primo si è svolto a Maastricht il 28 aprile, un altro si terrà presso la sede del Parlamento europeo a Bruxelles il 15 maggio). Quanto possono arrischiarsi in giudizi, promesse e prese di posizione, consapevoli che dovranno garantirsi il sostegno dei capi di Stato e di governo? Il vero punto è allora chiedersi cosa si vuole che la Commissione sia. Si vuole davvero che, sul modello del “decennio Delors”, torni ad essere un vero esecutivo federale? E più in generale, si vuole rimettere mano a quell’ibrido istituzionale uscito dagli anni travagliati che vanno dall’inaugurazione della Convenzione del marzo 2002 al Trattato di Lisbona del 2007 (in vigore due anni dopo, a seguito del doppio referendum irlandese)? In definitiva si vuole davvero tornare a riflettere su quel lustro che ci ha visto passare dal sogno della “Costituzione europea” al più prosaico “Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea”? O ci si accontenta, ancora una volta, della montagna e del solito topolino?
di Paolo Pombeni
di Michele Marchi
di Marco Mondini *