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27 marzo 2024
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Il voto dei giovani

Luca Tentoni - 10.02.2018
Tuorto - L'attimo fuggente

Negli anni Settanta, il voto dei giovani era considerato decisivo, sia per l'orientamento degli elettori fra i 21 e i 25 anni (non compiuti) o fra i 18 e i 25 (dopo l'abbassamento della maggiore età, avvenuto nel 1975), sia per la numerosità di quelle coorti. I giovani erano tanti, figli del dopoguerra, cresciuti durante gli anni Sessanta, mediamente più istruiti dei genitori e di tutte le generazioni precedenti; il loro peso elettorale non era inferiore a quello dei votanti della "terza età". Oggi la situazione è molto diversa. I giovani sono pochi, hanno una grande indecisione se andare a votare o meno, dunque politicamente pesano molto meno degli "over 60" (o 70). Le loro aspettative socio-economiche, inoltre, sono ben diverse dai coetanei degli anni Sessanta e Settanta: il futuro che si presenta è molto meno roseo, così come il presente (nonostante un livello d'istruzione ancora superiore rispetto ai ventenni di quaranta anni fa). Insomma, il voto dei giovani adulti non "fa più paura" ai partiti, il che alimenta, nei ragazzi che si sentono "esclusi" un ulteriore sentimento di abbandono da parte della politica, di inutilità della partecipazione elettorale. Secondo un recente studio Demopolis, il 47% dei giovani fra i 18 e i 25 anni non sembra intenzionato ad andare ai seggi. Il 4 marzo prossimo. Ad arricchire il dibattito sul tema del voto giovanile, delle tendenze politiche di quella fascia di elettori, sull'"imprinting" che i giovani hanno avuto nel tempo in cui si è svolto il loro processo di socializzazione, arriva uno studio - appena uscito - di Dario Tuorto ("L'attimo fuggente - Giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento", Il Mulino 2018). Secondo l'autore, il primo appuntamento con le urne è di solito più importante e partecipato dei successivi, anche a causa dell'attuale strutturazione delle carriere lavorative: "i giovani sperimentano condizioni peggiori nella fase successiva alla conclusione degli studi (ritardi di ingresso nel primo lavoro, precarietà, periodi di vita sempre più estesi come Neet); non sorprende, quindi, che una situazione prolungata di ambivalente acquisizione degli status adulti e di posponimento delle transizioni produca effetti negativi sulla partecipazione alla vita pubblica e alla politica". Inoltre, l'uscita dalla famiglia e il passaggio verso un nuovo assetto lavorativo e personale sposta ai 30-35 anni il completamento delle transizioni allo stato adulto. È in quel momento che la partecipazione riprende a crescere, dopo il declino fra i 22-30 anni. Sul piano dell'orientamento politico, però, i giovani del 2018 hanno qualcosa in comune con i loro coetanei del 1968 o degli anni Settanta? Per scoprirlo dobbiamo rifarci agli studi (riportati da Tuorto) svolti nel tempo. Superato lo strumento del "voto differenziale", che individuava il voto giovanile semplicemente sottraendo i voti espressi per il Senato da quelli per la Camera dei deputati, ci si può basare su indagini più approfondite. Quella sul 1968 ci conferma qualcosa di già noto (la costante sottorappresentazione della Dc in questa fascia di elettorato) ma non la spinta verso sinistra o verso le "estreme". Infatti, se è vero che il Pci e altri di sinistra hanno nel '68 lo 0,6% in più rispetto al dato generale e la destra l’1,4% in più, è però anche vero che, alla fine degli anni Sessanta, i giovani si orientano maggiormente (soprattutto quelli dotati di un titolo di studio) verso il Psi e i laici (26%). Sono gli anni Settanta e Ottanta a connotare le coorti giovanili a sinistra, anche se nel 1972 si osserva anche un notevole successo del Msi (12,4%). Il Pci sale al 37,1% nel 1972, arrivando al 38,1% (con i soggetti politici alla sua sinistra) nel 1983. Si tratta, in quest'ultimo caso, del voto dei nati fra il 1953 e il 1965 (i "baby boomers"), cioè di quella generazione che resterà per sempre la più attiva (per partecipazione elettorale) e la più propensa a votare per la sinistra. Nel 1987, infatti, il consenso si sposta verso Psi e laici, ma soprattutto va a rafforzare la "nuova sinistra" di Radicali e Verdi (un processo, quest'ultimo, iniziato nel '79 col successo del Pr). Il fatto che durante l'ultimo quarto di secolo della Prima Repubblica i giovani abbiano sistematicamente dato fra il 5 e il 10% di voti in meno alla Dc rispetto agli elettori più "anziani" non basta, dunque, a dire che i ragazzi siano stati (e siano tuttora) di sinistra. Anzi, la dinamica della Seconda Repubblica ha mostrato che fra il 1994 e il 2008 il centrodestra (in particolare Alleanza nazionale) ha ottenuto fra il 49,3% (2001) e il 57,6% (1996) dei voti degli elettori fra i 18 e i 30 anni, mentre il centrosinistra è rimasto sotto il 40% fino al 2001, quando è salito al 45,3% per poi raggiungere il record del 49% nelle elezioni vinte da Prodi nel 2006, tornando però - già nel 2008 - al 41,7%. Ad attrarre di più i giovani della Seconda Repubblica non sono stati i partiti più moderati delle rispettive coalizioni, ma quelli un po' più estremi: An e Rifondazione. Tutto cambia nel 2013, quando il M5s ottiene il 40,7%, a fronte del 22,2% del centrosinistra (Pd: 15,1%) e del 25,2% del centrodestra (Pdl: 22%). Lo spostamento verso i Cinquestelle è confermato (sia pure in forma attenuata), secondo quanto si legge nell'analisi di Tuorto, anche alle europee del 2014 vinte da Renzi, quando il Pd consegue fra i giovani il 33% contro il 33,5% del M5s, in un quadro generale del tutto diverso (Pd 40,8%, M5S 21,2%). Il voto dei giovani, insomma, è cambiato col tempo. Il legame col momento della socializzazione è importante e resta vivo durante l'intero percorso politico dell'elettore, tanto che possiamo riscontrare nei giovani di 20, 30, persino 50 o 60 anni fa tendenze che manifestavano già nei loro primi appuntamenti con le urne. Come spiega Tuorto, "possiamo distinguere, negli anni Cinquanta e Sessanta, una fase dominata dalla spinta modernizzante ma anche dall'aspro conflitto ideologico tra culture politiche contrapposte. A questo primo periodo interlocutorio è seguita una stagione di intensa mobilitazione collettiva, durante il decennio 1968-1977, in cui la politica è diventata, per una minoranza attiva di giovani, una dimensione identitaria ed espressiva fondamentale". Gli anni Ottanta, invece, hanno visto "il cosiddetto riflusso, una lunga e lenta disarticolazione delle scelte elettorali dei giovani (e non solo), culminato con la crisi del sistema dei partiti". Nel 1994 "ha avuto inizio una fase di normale competizione tra due schieramenti che si alternavano al governo. Questo periodo lungo si è interrotto nel 2013 quando il combinato di crisi economica e politica ha messo in discussione gli equilibri". Nella Prima Repubblica, conclude Tuorto, "i giovani avevano anticipato tendenze generali come il voto conformista per la Dc, la socializzazione politica di rottura attraverso il voto al Pci e poi la fuga dai partiti di massa. Nella Seconda Repubblica riemerge la questione del voto giovanile, ma in una fase di (post) crisi e nuovo scetticismo politico. La differenza col passato sta nell'irrilevanza dei giovani, il cui peso numerico è minore oggi rispetto al 1975, quando venivano indicati come possibili protagonisti della trasformazione elettorale". Quella che negli anni Settanta era una coorte influente e politicamente molto attiva, appare oggi come una fascia di elettorato socio-economicamente debole, politicamente disorientata e disillusa, conscia del suo scarso peso sull'esito elettorale e sulle scelte della classe politica. Per la prima volta, nel 2018, vanno al voto i figli del nuovo millennio (anche se saranno pochi: solo i nati fra il primo gennaio e il 4 marzo del 2000). Insieme a loro, coloro i quali non hanno ancora l'età per votare per il Senato, essendo nati dopo il 5 marzo del 1993. Quello del 2018 sarà il voto dei giovani nati e cresciuti solo nella Seconda Repubblica. Sarà interessante verificare il livello di partecipazione e le scelte che faranno (il corpo elettorale 18-25enne è infatti in gran parte diverso da quello del 2013: allora era formato di cittadini nati fra il 1988 e il 1995; ora, dei nati fra il 1993 e il 2000), comparandole con quelle dei loro coetanei francesi, spagnoli, inglesi.