Il referendum invisibile
Manca solo un mese e mezzo al voto per il referendum costituzionale sulla diminuzione del numero dei parlamentari da 945 a 600, ma nessuno ne discute. Un po' perché la gran parte degli italiani è favorevole alla riforma, quindi - fra il sì e il no - non c'è partita. Un po' perché - al di là del merito e delle ragioni di sostenitori e oppositori, che rispettiamo ma che esulano da questa nota - il voto ha un valore politico prossimo allo zero. Forse neanche il M5s, che ha tanto voluto questa legge costituzionale, pensa che il referendum possa portargli un beneficio elettorale, perché la vera prova da superare è quella delle regionali di maggio. Il fatto è che intorno a questa micro-riforma istituzionale i giochi si sono già fatti: finora, l'unico merito (a seconda dei punti di vista, poi) che ha avuto sta nell'aver reso impossibile o almeno poco praticabile l'ipotesi di uno scioglimento delle Camere a fine gennaio. Senza la riforma, una vittoria di Salvini in Emilia-Romagna (che fino a poche ore prima del voto era giudicata probabile da quasi tutti gli analisti e da molti politici) avrebbe portato alla crisi di governo e alle elezioni anticipate in aprile. Invece, nonostante le bizze di alcune forze politiche dell'eterogenea maggioranza giallo-rosa che governa il Paese, non si voterà così presto. Una finestra per le elezioni a fine giugno è socchiusa: sarà difficile spalancarla. In sintesi, la riforma che diminuisce il numero di senatori e deputati ha già svolto il suo compito politico (di freno alle elezioni e di traino di consensi - peraltro mancato - al movimento che l'ha promossa) e si presenta spoglia, senza motivazioni da offrire all'elettore. Si dirà che i sostenitori del "sì" e del "no" hanno ragioni robuste da far valere, e che l'elettorato dovrebbe ascoltarli. Sarebbe meglio dire che potrebbe, ma anche che forse non lo farà, o lo farà svogliatamente. Un effetto sulla rappresentanza ci sarà, ma solo se la legge elettorale non sarà cambiata: altrimenti, abolendo la quota di seggi assegnata nei collegi uninominali, per alcuni partiti le cose potrebbero non cambiare molto. Col 18,76% dei voti, per esempio, il Pd ha avuto nel 2018 il 17% dei seggi a Montecitorio e il 16,2% a Palazzo Madama. È evidente che con un sistema proporzionale (anche con sbarramento basso, poniamo al 3%) il partito di Zingaretti avrebbe, persino se confermasse il 18,76% dei voti, almeno il 19 o il 20% dei seggi. In termini assoluti i posti assegnati al Pd potrebbero essere inferiori al 2018, ma in rapporto alle Assemblee il partito peserebbe di più. Il discorso non sarebbe diverso per una destra che - pur avendo vinto in molti collegi uninominali - è data dai sondaggi ben oltre il dato del 2018, dunque in grado di rieleggere quasi tutti i suoi parlamentari uscenti (per non parlare della Lega, che avrebbe di certo anche con la riforma elettorale più posti in valore assoluto rispetto alle politiche di due anni fa). Il problema, alla fine, riguarderà paradossalmente chi ha promosso la riforma, cioè i Cinquestelle, che rischiano di non riportare in Parlamento i due terzi dei loro rappresentanti. A restare schiacciati sarebbero i partiti di medie dimensioni, si dice: però oggi, col 5%, si ottengono circa 20-21 deputati (il 3,3%); col "taglio" ma senza la nuova legge elettorale diverrebbero 12-13 (ancora una volta poco oltre il 3%); con la riforma e la soglia, invece, potrebbero salire di nuovo a 20. In realtà, sarebbero travolti solo quelli con meno del 5%, che dovrebbero accontentarsi di costituire una sparuta componente del gruppo misto. Di tutto questo, così come del significato della rappresentanza parlamentare (che non è migliore se si riduce o si amplia il numero, perché la qualità del personale politico non può essere accresciuta aumentando o diminuendo la quantità) nessuno parlerà nelle sei settimane che ci separano dalla consultazione popolare. Alla fine, il voto del 29 marzo - nel quale non c'è quorum, quindi non c'è nemmeno l'unico elemento che avrebbe potuto suscitare qualche interesse - passerà sul quadro politico come un litro d'acqua su un blocco di roccia. Anche il valore di protesta contro la "Casta" è svanito, perché non sarà il sì di uno o di venti milioni di persone a rendere più robusta una riforma così parziale (una brioche per il popolo, insomma). Innocuo come il festival di Sanremo (ma verosimilmente molto meno partecipato), il referendum sarà solo una data sbiadita sul calendario di una stagione di scontri ben più aspri, nel pieno di una transizione della quale non si vede la fine.
di Luca Tentoni
di Francesco Provinciali *