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17 aprile 2024
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Il referendum britannico sull’UE

Francesco Lefebvre D’Ovidio * - 22.06.2016
Nigel Lawson

L’imminente referendum nel Regno Unito sull’alternativa “leave” o “remain” rispetto all’UE ha dato luogo a una serie di dichiarazioni improvvisate e impressionistiche, sia dalla parte dei favorevoli al ”leave” che da quella dei favorevoli al “remain”, tanto nel Regno Unito che nel continente e negli USA. Le argomentazioni sono in tutti i casi di tipo allarmistico e frutto di una concezione emotiva dei problemi.

Dal lato dei favorevoli al ”leave” si sono lette le più oscure motivazioni, come quelle – invero sconcertanti per la personalità di chi le esprime – di Nigel Lawson, conservatore, già Cancelliere dello Scacchiere nel gabinetto di Margaret Thatcher, il quale ha spiegato che nell’UE ci sarebbe un deficit di democrazia, trattandosi di un progetto voluto da un’élite: frase alquanto stupefacente se si considera che il Regno Unito è da sempre governato da un’élite, selezionata anche in base alla scuola e al college frequentato da coloro che vengono chiamati a dirigere governi, partiti, banche e altre istituzioni (lo stesso Lawson, non a caso, è uscito da Chirst Church di Oxford). Altra ragione sarebbe la circostanza che, in realtà, nell’UE vi sono Stati nazionali che non si sentono parti di un unico Stato federale. Se vi sono motivi per un’uscita dall’UE devono sicuramente essere ben più seri e profondi che non quelli indicati da Lawson.

Dall’altro lato, dei favorevoli per il “remain” si sono lette le previsioni più fosche, oltre che sorprendentemente precise, circa i danni che lo UK soffrirebbe in caso di uscita in termini di riduzione del PIL: e anche qui abbiamo letto i dati sui costi preannunciati dall’attuale Cancelliere dello Scacchiere, il conservatore George Osborne, che quantifica in 30 miliardi di sterline tali danni e, di conseguenza, minaccia un inasprimento fiscale che colpirebbe redditi e patrimoni (persino un amento dell’imposta sulle successioni, che notoriamente non porta un gettito significativo e appare più una punizione dell’elettorato che una misura economica).

Da cosa dipenderebbero vantaggi o danni dell’uscita dall’UE? Da queste dichiarazioni non si capisce. E quali danni irreparabili subirebbero gli altri membri della UE come conseguenza dell’uscita del Regno Unito? Qui il quadro è ancora meno chiaro. La principale argomentazione è che tale uscita dimostrerebbe che l’entrata nella UE può essere un processo reversibile, e quindi darebbe luogo automaticamente ad altre uscite, come si era già detto a proposito della possibile uscita della Grecia. Anche questa non sembra un’argomentazione ragionevole: l’uscita di un membro della UE è possibile indipendentemente dal fatto che ne sia effettivamente uscito un altro membro prima e, se fosse vero che provoca danni così ingenti al paese uscente, l’esperimento dovrebbe costituire un freno, non un incoraggiamento per altri. Ancora meno chiari appaiono gli interventi del presidente degli USA e della Chair della FED, Janet Yellen.

Per chi volesse capire meglio il problema esiste uno studio redatto a cura della House of Commons (“Leaving the EU”, Research Paper 13/42, 1 July 2013) in cui le varie ipotesi sulle modalità in cui potrebbe svolgersi il processo di uscita vengono analizzate in dettaglio e senza allarmismi. Occorre ricordare ai lettori che il Regno Unito, quando aderì alla Comunità Europea, nel 1973, uscì dall’EFTA (European Free Trade Area) che aveva promosso nel 1956 e che si era costituita nel 1960 con la firma del trattato di Stoccolma. L’EFTA nel 1992 stipulò a sua volta una convenzione con la Comunità Europea, creando la EEA (European Economic Area), tuttora in vigore. In sostanza, i membri dell’EEA fanno parte del mercato unico europeo. Appare altamente improbabile che, in caso di uscita dall’UE, il Regno Unito diventi un’area protezionistica isolata dal resto dell’Europa, facendo venire meno i complessi sistemi di accordi in materia commerciale, finanziaria, monetaria, agricola, ecc. che oggi regolano i flussi di merci, persone e capitali fra gli stati nazionali europei. È invece molto probabile che esso rientrerebbe a far parte dell’EFTA o comunque resterebbe nell’EEA, eventualmente sulla base di una serie di trattati bilaterali, come la Confederazione elvetica. Sembra alquanto dubbio che sia il Regno Unito che i membri dell’UE vorrebbero auto-infliggersi i danni scaturenti da un ritorno reciproco a regimi autarchici.

Dato che le conseguenze dell’uscita dipenderebbero dalla negoziazione del reingresso nell’EFTA o degli accordi bilaterali o multilaterali che verrebbero stipulati, la quantificazione dei guadagni o dei danni, in termini di PIL, non è possibile, come afferma lo studio “Leaving the EU”; e neppure la valutazione di vantaggi e svantaggi da un punto di vista politico, in termini di recupero di sovranità o di isolamento internazionale.

 

 

 

 

Professore Ordinario di Storia delle relazioni internazionali alla “Sapienza” Università di Roma