Il problema centrale dell’Europa: quando l’anima sbiadisce, il corpo declina
I tempi che viviamo non consentono un dibattito sereno e maturo. Il dialogo, che presuppone riflessione, capacità di argomentazione e ascolto, non può esserci se mancano questi prerequisiti basilari fondamentali. Qualsiasi tema caldo che emerge viene trattato con toni beceri, vacui e, in definitiva, poco proficui. Il dialogo è altra cosa. Esso necessita di moderazione e capacità di autocontrollo; dopo tutto, proprio una delle peculiarità che ha reso grande il nostro continente e, per estensione, il mondo occidentale, è la capacità critica. Ciò significa che il dogmatismo del pensiero va rifiutato, che parlare con il prossimo – specialmente con chi o la pensa diversamente da noi o proviene da una cultura altra – è proprio il momento, la situazione che per eccellenza può condurci a un arricchimento, farci vedere e capire cose che in precedenza o non si conoscevano o si percepivano nel modo errato. Ciò non vuol dire, tuttavia, porsi in maniera succube e lasca nei confronti della diversità, tutt’altro. Il confronto può condurre ad esiti positivi e fruttuosi solo a patto che non ci si presenti a questo appuntamento come una pagina vuota, come un foglio da scrivere daccapo. Questo è il caso dell’Europa attuale, sempre meno in grado di concepirsi come un unicum unico ed irripetibile assai nobile.
Come scrive bene Ortega y Gasset, l’uomo – europeo nella fattispecie: l’individuo di una società aperta, diciamo pure – è una creatura che può scegliere liberamente cosa essere e per sommi capi anche il percorso attraverso cui addivenire a questo risultato. Nondimeno, si può dire che, pur nella facoltà di scegliere, esso non può dimenticare che «è un animale che porta dentro di sé la storia», che è forgiato dalle esperienze del passato. In altre parole, deve la propria ossatura alla sedimentazione di variegati esperimenti precedenti. L’individuo presente, dunque, «non è un primo uomo, un eterno Adamo, ma è sostanzialmente un secondo, un terzo uomo», per citare ancora il pensatore spagnolo. Se egli dispone delle possibilità attuali, ciò è dovuto anche alle fatiche e ai tentativi che, chi è venuto prima di lui, ha tentato. Quindi, eliminare, azzerare, fare tabula rasa di ciò che ci ha preceduto è un grave errore che prima o poi pagheremo.
In questo alveo si inseriscono le polemiche suscitate dalla decisone di Ursula von der Leyen, la quale sostituisce Juncker alla presidenza della Commissione europea, di denominare il commissario alle migrazioni “commissario per la tutela dello stile di vita europeo”. In questa fase storica, stiamo esperendo un ritorno prepotente dei nazionalismi (se n’erano mai andati?), sovente declinati in modo estremamente profondo. Sovranità è un concetto che va adoperato con molta cautela e che può causare fraintendimenti assai pericolosi. La domanda è: se l’Europa fosse davvero tale, se cioè fosse memore della sua essenza, e non solo una insipida etichetta dal sapore tecnico-burocratico, avrebbe avuto senso creare una denominazione del tipo menzionato sopra? Lecito è dubitare, in ogni caso, dell’effettiva utilità di un commissario che tuteli il patrimonio immateriale europeo. Tuttavia, proprio il male principale che si vive, che si respira quotidianamente in seno al nostro continente è un certo disprezzo per tutto ciò che sa di tradizione, di processo storico, cioè di passato, di peculiarità uniche e profonde che hanno reso l’Europa grande ed esemplare per molti in tutto il mondo. Qualche tempo fa Dario Antiseri ha pubblicato per “La Scuola” un esile, ma oltremodo pregnante volume dal titolo “L’anima greca e cristiana dell’Europa”, utile ora più che mai per tornare padroni dell’idea sostanziale, non solo formale, che soggiace al concetto di “Europa”. Ma forse basterebbe ripartire da un breve pensiero di Edmund Burke: «I popoli che non si volgono indietro ai loro antenati non sapranno neanche guardare al loro futuro». L’Unione europea è ebbra del benessere creato, stanca spiritualmente e incapace di pensare ad essa come una pluralità di comunità. In definitiva, essa è (sarebbe: il condizionale è d’obbligo) maestosa se ricerca l’unità nella diversità, se valorizza il variegato e multiforme patrimonio di cui dispone, facendo leva sulla libertà. Ostinarsi a parlare di unità politica, di uniformare gli stati membri, di armonizzare qualsiasi ambito, anziché ripensare ai cardini profondi (e liberali) della sua unicità che vanno dissolvendosi – tanto per fattori endogeni quanto per fattori esogeni – significa non solo essere miopi od ottusi, ma più probabilmente non essere proprio all’altezza del gravoso compito di tutelare il grandioso progetto europeo.
* Dottorando in Scienze politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma.
di Paolo Pombeni
di Stefano Zan *
di Carlo Marsonet *