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14 dicembre 2024
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Il populismo in Italia? È tutt’altro che finito

Carlo Marsonet * - 11.09.2019
Nuovo governo

L’alleanza ai limiti del reale tra M5S e PD ha ormai trovato la sua compiuta realizzazione nella formazione del nuovo governo. Tale conclusione non può che destare più di qualche perplessità, giacché lo scontro frontale tra i due neo-alleati è sembrato per lungo tempo assai veemente. Alla fine, però, il desiderio di ostracizzare la Lega salviniana li ha messi d’accordo. Il nemico è stato individuato e il tampone “per il bene del Paese” è stato edificato.

La formazione grillina a questo punto si dice che abbia smarrito la sua identità profonda – anche se dai confini piuttosto brumosi, com’è tipico dei movimenti populisti – per mere logiche di potere. In effetti, non serve un occhio acuto per riscontrare nel comportamento dei 5 Stelle un certo trasformismo o, se si preferisce, una ragguardevole dose di incoerenza. Un atteggiamento che cozza palesemente con tutta la retorica "anti" e "contro" promossa dai pentastellati fin dalla loro nascita. Siamo però sicuri che questo significhi che il populismo sia giunto alla fine nel nostro Paese? E siamo altrettanto certi che la Lega non abbia nervature di tale stampo?

A detta di chi scrive, i 5 Stelle sono tutt’altro che finiti; perlomeno, le idee (o i deliri?) che stanno alla loro base e che costituiscono la loro essenza. D’altronde, è difficile pensare che essi se ne vadano via così in fretta, giacché sono verosimilmente radicati in molte menti e molti cuori che seguono l’ideale democratico pedissequamente, così come continuano a essere incantati da alcuni rigurgiti dal sapore sessantottino ("l’immaginazione al potere" e "l’uno vale uno", ad esempio). Pertanto, se il movimento che ad oggi ha incarnato questi (dis)valori è in crisi, ciò, tuttavia, non equivale a sostenere che essi – i (dis)valori – non possano continuare ad aleggiare nell’aria e, magari, trovare nuova rappresentanza in futuro. Ammesso (e non concesso) che sia così, comunque, il carattere "camaleontico" del populismo ci insegna (o ci dovrebbe insegnare) che esso può assumere mutevoli forme, differenti pelli.

Infatti, la Lega certamente ha una matrice fortemente nazionalista, che la rende etichettabile come formazione politica dai connotati di destra: nessuno lo nega. Epperò, alle coordinate nazionaliste – come da miglior esempio di nazional-populismo – esso va a impastare alcuni tipici elementi populisti: dal rigetto del pluralismo, a una certa insofferenza per i meccanismi e le procedure liberaldemocratiche, dalla semplificazione del reale, all’utilizzo iperinflazionato dello strumento del capro espiatorio e dell’individuazione di un nemico da abbattere (e non di un avversario da sconfiggere). In virtù di ciò, difficilmente può essere sostenuto, come ha fatto sul suo blog su "Il Giornale" il 29 agosto Francesco Giubilei – giovane editore, saggista e commentatore politico –, che il populismo in Italia è finito. Non solo, come detto, perché il grillismo probabilmente ha tutt’altro che smesso di attecchire, ma anche perché la Lega rientra appieno nell’alveo populista. Certamente, si tratta di un populismo di segno diverso, ma pur sempre di populismo.

Inoltre, una piccola parentesi va dedicata al PD. Fin da quando ha dovuto scontrarsi con la protesta pentastellata, esso è sembrato uno degli argini all’abbarbicarsi del populismo in Italia. Stupisce, quindi, la logica di allearsi con i "barbari". Ma siamo sicuri che i dem possano essere considerati i "romani"? Non dimentichiamoci, infatti, che la protesta da cui prende avvio il movimento grillino nasce da una costola della sinistra, giustizialista, giacobina e dal credo statalista. L’alleanza tra le due formazioni politiche, dunque, può a giusto titolo essere definita "social-statalista", come l’ha ribattezzata Carlo Lottieri. Se i compagni di viaggio hanno delle differenze, non possono essere omesse anche le comunanze delle loro idee o, almeno, con le idee di una certa sinistra.

In definitiva, difficilmente ci libereremo dalla morsa populista a breve. Schiacciati tra un populismo protestatario, giustizialista e latinoamericaneggiante (leggi antimoderno), da un lato, e uno nazionalista e identitario, dall’altro, l’unica vera risposta alternativa è quella liberale. La battaglia davanti a cui ci si trova è di ordine primariamente culturale. Ed è su questo terreno che bisogna agire. Il populismo, infatti, prima di essere identificato come un movimento o un partito politico, può essere considerabile come una degenerazione dell’individualismo. Servono, pertanto, pazienza, fortezza d’animo e umiltà, tutte qualità che, purtroppo, sembrano mancare a società sempre più ebbre di benessere, autocentrate e incapaci di esercitare quel senso del limite necessario a non per richiederne di sempre più perfette e, così facendo, demolendole dall’interno (mi si consenta di rinviare al mio articolo scritto per la rivista "Il Pensiero Storico": "Il populismo come manifestazione del tradimento dell’individualismo vero", 2 agosto 2019). Un certo pessimismo è quasi inevitabile; ma la speranza che si possa tornare a riflettere, e non a urlare, a pensare in modo costruttivo, e non distruttivo, permane, per quanto tenue.

 

 

 

 

* Dottorando in Scienze politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma.