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24 aprile 2024
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Il PD alla ricerca di una politica

Paolo Pombeni - 07.12.2022
Elly Schlein

Quel che sta avvenendo in ciò che resta del partito che puntò a fondare una versione italiana del bipartitismo/bipolarismo non è entusiasmante: né per la diatriba che si è accesa sulla riscrittura della sua carta dei principi e dei valori, né per la competizione su chi debba essere il segretario del partito nel momento in cui si punta ad un qualche tipo di rinascita.

Sul primo versante verrebbe banalmente da dire che i “manifesti” sarebbe meglio affidarli a dei pensatori politici veri piuttosto che ad una platea di una novantina di delegati scelti con criteri abbastanza oscuri e privi, senza offesa, di quella caratteristica. Piuttosto che a scrivere documenti di principio sarebbe meglio che una forza politica si dedicasse a produrre progetti e azioni sul “che fare”, perché è su questo terreno che si può puntare all’allargamento dei consensi e al dialogo/confronto con le altre forze politiche. Dedicarsi all’accademia che discetta su cosa sia veramente un valore da promuovere lascia il tempo che trova e produce più che altro sofismi, a meno che non si dica come ci si propone di tradurre le teorie in realtà e con quali mezzi si ritiene di poterlo fare con successo.

Molti decenni fa era stato di moda parlare di “fine delle ideologie”, perché si era visto che da tanti punti di vista stavano continuamente declinando le “chiese” e le “sette” politiche. Sembra che adesso queste e quelle risorgano grazie al grande palcoscenico dei media televisivi e dei social, che ripropongono le tifoserie per i diversi colori che possono sventolare le tribù politiche e i loro capi. Non ci pare però che sia un gran progresso.

Si potrebbe pensare che la ricerca della ristrutturazione di un partito intorno ad un leader capace di ridargli “spirito” possa far scendere il confronto dagli aeropagi pseudo filosofici al terreno della progettazione di azioni incisive. Per quel che si vede, sinora siamo ben lontani da questa prospettiva. Nel PD al momento siamo per lo più ad uno scontro fra tifoserie che mescolano elementi interni al vecchio mondo dell’organizzazione e attese messianiche circa qualche salvatore che spalanchi le porte verso nuovi paradisi terrestri.

Giusto per volare un po’ alti, ai molti che ancor oggi cercano in qualche modo un redentore o un profeta si dovrebbe ricordare quel che ebbe a scrivere Max Weber parlando ai giovani studenti del primo dopoguerra tedesco: “Se questi non è tra noi o se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a farlo scendere sulla terra il fatto che migliaia di professori tentino di rubargli il mestiere nelle loro aule, come piccoli profeti privilegiati o pagati dallo stato”. Oggi a rubargli il mestiere sono gli opinionisti e i giornalisti, che non di rado sono anche professori, non più nelle aule ma dagli schermi televisivi o dei computer.

Weber agli studenti rammentava che tutto questo non poteva nascondere la verità, e cioè che quel profeta o redentore “non esiste” e che inventarsene uno non serve. Difficile oggi sfuggire all’impressione che lascia una sfida per conquistare la segreteria del PD che per ciascun candidato è condotta per lo più a base di “scenografie” di investitura, studiate per fare colpo perché mancano poi le proposte concrete su ciò che si intende realizzare e su come si può farlo.

Uno vorrebbe sapere come ogni candidato pensa di “mettere a terra” (per usare una terminologia che oggi piace) i proclami che rivolge non si sa bene a chi: ognuno ai suoi pasdaran e pretoriani o alla generalità dei cittadini che si dovrebbe supporre siano consapevoli dell’esigenza di contemperare interesse generale, interessi specifici e condizioni concrete in cui, piaccia o meno, si è costretti ad operare? Non solo nei candidati mancano proposte di questo genere, che dovrebbero di necessità essere in numero limitato, ma ben articolate e corredate delle specificazioni e dei passaggi che possono dimostrare la loro fattibilità, e la tempistica che richiedono per essere portate a termine. Quel che è anche peggio è che non vengono loro neppure richieste.

Si sarà notato che le critiche che vengono mosse sono per lo più ispirate solo dal fine di creare sentimenti di rigetto irrazionale nei confronti di chi si candida. Per esempio a Bonaccini e ai suoi più stretti sostenitori viene rinfacciato di essere stati “renziani”, senza spiegare perché aver condiviso un progetto politico che a suo tempo aveva raccolto molti consensi anche elettorali, aver partecipato ad un processo di ricambio generazionale dei gruppi dirigenti è considerato una colpa. Renzi ad un certo punto ha abbandonato il PD, loro no: questo è un fatto.

Quanto alla Schlein il discorso è più complicato perché, essendo essa stata eletta a simbolo di un main stream che piace ai salotti degli opinionisti, non subisce una vera delegittimazione, ma al più una qualche presa di distanza perché si dubita che possa farcela nella sua impresa. In realtà lei è proprio uno dei personaggi inventati mediaticamente, a cui nessuno chiede cosa mai abbia fatto di “concreto” fino ad oggi sul piano della gestione politica: e la verifica di questo sarebbe indispensabile per valutare se ci sono qualità per dirigere un’azione politica, che è cosa diversa dal fare talk show e storytelling.

Osservando quel che succede, vediamo che, al contrario di quel che sentiamo strombazzato da troppe parti, al PD non manca una “identità”, bensì manca una “politica”. É infatti intorno a quest’ultima che si costruiscono consensi e alleanze: non con sigle e siglette (lì consensi e alleanze si fanno sulla base degli interessi dei capi tribù), ma con la gente che mai come in questo momento è alla ricerca di proposte concrete e di strumenti che diano qualche garanzia di essere efficaci per governare nell’interesse generale questa complicata contingenza.