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11 dicembre 2024
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Il nuovo partito nuovo

Stefano Zan * - 18.01.2020
Nuovo partito di ZIngaretti

La recente proposta di Zingaretti di fare un nuovo congresso per dar vita a un nuovo partito (forse anche nel nome) inclusivo, aperto, plurale che guarda alle Sardine, agli ambientalisti, ai sindaci e alla società civile organizzata ha suscitato, come era inevitabile, diverse reazioni.

In realtà per reagire con un certo distacco analitico sarebbero necessarie molte più informazioni su quanto ha in mente Zingaretti perché, quello che è certo è che non basta dichiararsi aperti e plurali perché i cittadini accorrano in massa ad iscriversi e a militare nel nuovo partito. Non solo. Non andrebbe dimenticato che il PD di Renzi era talmente aperto, inclusivo e plurale che ognuno (ogni corrente) faceva e diceva quello che voleva e votava anche come gli pareva a prescindere dalle indicazioni di partito. Una continua lotta fratricida tra correnti che ha ridotto il consenso elettorale e che nel giro di pochi mesi ha portato a tre scissioni: Bersani, Renzi, Calenda.

C’è quindi da augurarsi che Zingaretti abbia in mente qualcosa di diverso tanto dal semplice appello ecumenico quanto dalla riproduzione del modello precedente.

Ma cosa vuol dire oggi concretamente un partito aperto, inclusivo, plurale? È un partito che sa rappresentare meglio di quanto non abbia fatto negli ultimi tempi le istanze di giustizia sociale, di sviluppo sostenibile e di progresso che caratterizzano buona parte di quella società, organizzata e non, che in termini generali possiamo chiamare progressista che non si riconosce nei valori e nei programmi della destra conservatrice. Il problema è il come. Come cioè costruire oggi un partito che abbia nel suo operare quotidiano questa capacità. Le soluzioni organizzative possibili non sono molte ma hanno un tratto in comune che consiste di fatto nella ricostruzione di una cinghia di trasmissione tra partito e le diverse istanze della società civile però questa volta a parti invertite: non più il dominio, l’egemonia del partito sulla società organizzata bensì la capacità di quest’ultima di orientare le scelte e i comportamenti del partito. Compito certamente non facile che si contrappone nettamente al modello del leader carismatico proprio della Lega e di Fratelli d’Italia.

Proviamo ad immaginare alcune soluzioni organizzative possibili.

La prima è quella della periodica e sistematica consultazione dei rappresentanti delle forze organizzate sulle scelte di fondo del partito. Soluzione soft, da sempre praticata in maniera informale da tutti i partiti, ma mai appunto formalizzata come procedura vincolante per un corretto processo decisionale.

La seconda, anch’essa molto classica e largamente diffusa nella Prima Repubblica, è quella della cooptazione cioè dell’inserimento negli organismi dirigenti del partito di rappresentanti provenienti dalle diverse organizzazioni che animano la società civile.

Una terza ipotesi è una sorta di mediazione tra le prime due e cioè il coinvolgimento dei rappresentanti non politici nei momenti principali della vita del partito quali possono essere il Congresso e le Conferenze di Organizzazione o i cosiddetti Stati Generali.

Ovviamente sono possibili forme miste delle tre soluzioni ipotizzate.

In ogni caso però restano aperti due problemi. In primo luogo bisognerebbe capire meglio perché persone attive e impegnate sui vari fronti della società organizzata, certamente progressiste e che in massima parte alle elezioni votano poi comunque PD, rifiutano la militanza diretta nel partito. La risposta più plausibile è che la configurazione dei gruppi dirigenti e le dinamiche di potere interno di fatto ad oggi hanno penalizzato e marginalizzato chiunque sia espressione di qualcosa di diverso dal partito stesso. Questo ci porta direttamente al secondo problema che è appunto quello della classe dirigente del partito e dei politici di professione. La riorganizzazione prospettata da Zingaretti presuppone un profondo ricambio dei gruppi dirigenti a tutti i livelli. E’ possibile ipotizzare, e più ancora praticare, un ricambio così profondo quando i posti a disposizione sono sensibilmente calati? Con la perdita di tutte le Regioni in cui si è votato fino ad ora e con la riduzione del trenta per cento del numero di parlamentari un intero ceto politico, cioè persone che per molti anni della loro vita hanno vissuto di politica, è destinato a cambiare mestiere. Sembra ragionevole ipotizzare che quelli che restano faranno di tutto per non farsi da parte. Ma se i gruppi dirigenti non cambiano, allora non cambia neanche il partito.

La sfida posta da Zingaretti diventa quindi davvero interessante. Quale modello organizzativo sceglierà tra quelli possibili e quanto sarà in grado di governare il processo di ricambio dei gruppi dirigenti sarà cosa che, forse, vedremo nei prossimi mesi. Intanto però Zingaretti ha giocato d’anticipo. Se le elezioni in Emilia-Romagna dovessero andare male il nuovo Congresso, al quale sarebbe stato comunque costretto dagli avversari interni, è già convocato ed è convocato per fare un partito nuovo diverso da quello che perde sistematicamente. Mossa certamente non banale da parte di un segretario di partito.

 

 

 

 

* E' stato docente universitario di Teoria delle organizzazioni. Il suo blog è ww.stefanozan.it