Il maxipartito del 60%
Secondo tutti i sondaggi la somma dei consensi ai due partiti al governo raggiunge il 60% di coloro che esprimono delle preferenze e manifestano l’intenzione di andare a votare. Per di più Lega e Cinque Stelle sembrano dividersi alla pari questo bacino di preferenze. Pur con tutte le cautele del caso (si tratta di opinioni espresse in un momento in cui le elezioni sono lontane) non è un dato da sottovalutare.
La prima ragione che dovrebbe far riflettere è che, almeno in teoria, non si tratta di partiti che hanno esattamente lo stesso approccio. Anzi sono due componenti piuttosto diverse per bacini di insediamento, per tipologia di personale politico, per riferimenti ideologici. Persino le promesse che hanno presentato in campagna elettorale erano differenti, con pochi punti di contatto, tanto che questa coalizione non era stata prevista. A tutt’oggi non pochi si ostinano a ritenere che la strana alleanza sia prossima a deflagrare, ma in verità al momento non se ne vedono i segnali.
Dunque cosa è successo? La spiegazione potrebbe essere banale: la voglia nel paese di liberarsi della vecchia classe dirigente era ed è più forte di ogni altra considerazione. E’ questa che fa percepire a più della metà del paese la soddisfazione di un ricambio che ha visto irrompere quelle politiche arrembanti che la gente si aspetta come soluzione ai problemi.
Gli osservatori notano che quanto a nuovo modo di comportarsi la classe politica degli homines novi non ha dato grande prova. L’assalto alle poltrone è stato e continua ad essere governato dagli antichi riti spartitori della Prima e della Seconda Repubblica. Chi però pensa che questo sia causa di affievolimento del loro consenso non sa come funzionano le cose: la gente si sente estranea al grande risiko della copertura dei posti di vertice, non conosce le persone in competizione e in ultima istanza non vede perché una certa scelta le porterebbe più vantaggi o più disagi di un’altra. Sono questioni che interessano una ristretta cerchia di addetti ai lavori che possono fare il tifo per questo o quel candidato o fingere di scandalizzarsi perché i nuovi padroni si comportano in quel modo così come finsero di scandalizzarsi per quanto avvenuto in precedenza.
La vicenda della RAI è emblematica, perché di tutti gli enti interessati da queste vicende è quello maggiormente conosciuto dal grande pubblico. Francamente per la grande maggioranza degli elettori italiani è arduo capire per quale ragione il candidato di Tria a Cassa Depositi e Prestiti sarebbe preferibile a quello di Di Maio. Eppure nemmeno nel caso della televisione si può registrare una passione del pubblico per le varie nomine: magari si farebbero coinvolgere nella scelta di chi deve condurre il Festival di Sanremo, ma dei presidenti e degli amministratori delegati importa poco.
Insomma per il momento il pacchetto di consensi è solido nelle mani dell’attuale maggioranza anche se si tratta di consensi virtuali. Per questo, come abbiamo scritto più volte, Lega e Cinque Stelle aspettano con ansia le elezioni europee che sono convinti li certificheranno.
Tuttavia anche i pacchetti virtuali hanno il loro peso, soprattutto perché il 40% di voti che sta fuori della maggioranza è diviso in molti rivoli che è altamente improbabile convergano. Ammesso per assurdo che si potesse avere un asse fra PD ed FI (cosa esclusa, perché da una parte e dall’altra provocherebbe scissioni) non si andrebbe oltre il 25-26% : un po’ poco per impensierire i due vicepremier.
Adesso la vera questione aperta è come far pesare sia il consenso massiccio, sia l’assenza di alternative nella strettoia autunnale della legge finanziaria. Qui il terzo incomodo è chiaramente l’alta burocrazia che essendo ben consapevole della fragilità del nostro sistema non ha alcuna voglia di lasciare campo libero alle esigenze di Salvini e Di Maio di mostrare che porteranno a casa le mirabolanti riforme promesse. Il ministro Tria, ma non solo, è la punta di diamante di questa resistenza, che non è rigida , ma elastica: bene un po’ di annunci per realizzazioni future, accettiamo anche un po’ di spartizione di poltrone, ma si sappia che la tenuta del sistema non può essere messa a rischio.
Fino a quando sarà possibile per l’alta burocrazia, dietro cui c’è la gravosa responsabilità del Quirinale, reggere alla pressione di chi parla in nome del consenso ricevuto dal 60% dell’elettorato? Ecco la vera incognita. Si dice che Tria potrebbe usare l’arma atomica delle dimissioni, ma così facendo non rafforzerebbe il sistema ma lo farebbe implodere sotto l’attacco dei mercati finanziari e delle cancellerie europee, dunque è un’arma difficile da usare. Lo stesso vale per Salvini e Di Maio che non possono permettersi di mettere in riga l’alta burocrazia, perché a loro volta provocherebbero un salto nel vuoto che si ritorcerebbe contro di loro, perché diverrebbero i chiari responsabili di una debacle nazionale.
La situazione somiglia davvero, per fortuna in piccolo, a quella che c’era fra le grandi potenze al tempo della sfida atomica. USA e URSS avevano tante armi da provocare una guerra che avrebbe avuto come esito la distruzione reciproca. La situazione venne rappresentata con l’acronimo MAD, mutual assured distruction. Ma non a caso l’acronimo designava una parola che in inglese significa “pazzo”.
di Paolo Pombeni
di Luigi Giorgi *