Ultimo Aggiornamento:
23 settembre 2023
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Il Gioco Perverso delle Riforme

Paolo Pombeni - 10.07.2014
Matteo Renzi

Per quanto possa risultare incredibile, la partita sulle riforme assomiglia sempre più ad un gioco perverso in cui tutti sembrano puntare solo a rendere impossibile lo sfruttare a fondo un passaggio ormai essenziale. L’arroccamento generale su posizioni di principio, in gran parte fasulle, non giova certo a trasformare esigenze che tutti dicono di condividere (abolizione del bicameralismo perfetto, legge elettorale che consente al popolo di scegliersi i governanti, ecc.) in atti legislativi il più possibile efficaci. La ragione di tutto questo è semplice: il contenuto delle riforme interessa fino ad un certo punto, perché sono due le questioni che tengono banco, e cioè la conferma o meno della leadership di Renzi, nonché il futuro delle attuali stratificazioni di potere.

Il primo punto diventa più chiaro ogni giorno che passa. Renzi si è proposto come il grande riformatore, come colui che svecchierà il sistema italiano e su questa premessa ha raccolto e, almeno apparentemente, sembra continuare a raccogliere un ampio sostegno. Nei più scettici torna perfino fuori il vecchio ritornello montanelliano: turatevi il naso, ma votatelo, abbattuto lui non sappiamo cosa potrebbe venire. Difficile dare torto al ragionamento nella sua seconda parte, ma la prima non aiuta, perché di fatto ammanta gli avversari del premier dell’aura di eroi solitari che comunque avrebbero anche ragione, se solo ci fossero le condizioni per permettersi di esercitarla.

Ciò che si sottovaluta è che questa strategia degli oppositori costringe Renzi a barricarsi entro il suo perimetro e certo non agevola la possibilità che si doti di collaboratori nuovi, sacrificando qualche pasdaran che ogni volta che appare in TV convalida l’idea che per supportarlo bisogna proprio turarsi il naso. Per il premier accettare di vedersi messo in discussione con smacco (e per di più da personaggi non proprio di prima grandezza) significherebbe perdere qualsiasi potere di negoziato sulla scena internazionale, e sulla scena interna vedersi dimezzato davanti alle sorde resistenze del sistema di potere che si è consolidato nella confusione della cosiddetta seconda repubblica.

Sul tema della leadership Renzi ha molti più nemici di quanti non risultino iscritti nelle liste ufficiali, anche se la maggior parte di essi non è tanto ingenua da mirare a metterlo subito fuori gioco, ma punta piuttosto a logorarlo incentivando subdolamente le sue pulsioni “napoleoniche”. Infatti quanto più l’attuale leader del PD sarà costretto a recitare la parte dell’uomo solo al comando, a vincere sulla base del ricatto “dopo di me il diluvio”, tanto più il suo carisma si appannerà e si farà strada l’idea che, cavata che abbia qualche castagna bollente dal fuoco, si possa anche trovargli un successore. Per quanti leader non è finita così? (e parliamo anche di gente di prima grandezza tipo De Gaulle…).

Si arriva così a misurarsi col secondo tema, quella delle transizioni necessarie nelle attuali stratificazioni di potere. Pensare che un viaggio di più di trent’anni attraverso lo sfascio del sistema che aveva retto le sorti del paese dal dopoguerra sia stato una passeggiata che non toccava nulla sarebbe una ingenuità imperdonabile. Berlusconismo, antiberlusconismo, e tutto quello che si sono tirati dietro, sono le espressioni finali di un cambiamento generazionale, ma anche, anzi soprattutto culturale in senso antropologico. Essi hanno plasmato in gran parte (non in toto, per fortuna) il sistema di produzione della “pubblica opinione”, intendendo il termine in senso proprio: cioè il modo di produrre un sistema di “pensare in pubblico”, di darsi delle spiegazioni su come va il mondo, di fabbricare le varie “cerchie del noi” e “quelle dei loro”.

Su questo sistema che per tanti versi è una federazione di tribù e clan (concedeteci questa semplificazione retorica) è piombato il ciclone Renzi, non tanto come proposta politica in sé, ma come testimonianza che, volendo, cambiare si può. Ovvio che quel sistema stia valutando come salvarsi dalla burrasca, se provando a far fallire a Renzi gli obiettivi annunciati, oppure se accodandosi al vincitore svuotando quegli obiettivi dall’interno.

E’ su questo versante che si gioca forse la partita più pericolosa. Infatti una vecchia tattica che si usa in questi casi è far concentrare tutto lo scontro su alcuni punti molto appariscenti, in modo che si perda di vista il disegno complessivo di riforma. Fare una questione di stato sulla eleggibilità diretta dei futuri senatori, così come scannarsi sulle percentuali di sbarramento alle elezioni o sulle modalità del ballottaggio per designare il governo, può anche diventare una comoda via perché non si affrontino temi centrali, ma che toccano poteri diffusi, come il risanamento del sistema universitario e della ricerca, il ridisegno di un sistema fiscale da rendere al tempo stesso più equo e meno cervellotico, una seria riforma della scuola. Scannarsi sulla responsabilità civile dei magistrati può essere la comoda via per non mettere mano al bizantinismo di ricorsi, eccezioni, controdeduzioni, e quant’altro che rendono una lumaca il nostro sistema giudiziario.

Val la pena, come si usa dire, di farci un ragionamento sopra.