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Il futuro che l’Italia non può permettersi

Paolo Pombeni - 19.11.2016
Scheda referendum

Che la politica sia diventata un circo Barnum autoreferenziale non è una gran scoperta, visto che lo si sapeva da tempo. Tuttavia l’impressione è che in questa fase si stiano passando i famosi limiti. La ragione è che i vari protagonisti dell’ultima fase di questa guerra senza quartiere a tutto pensano meno che alla banale questione che il 5 dicembre sarà “un altro giorno” come si diceva nella scena finale di un notissimo film, cioè che l’Italia dovrà continuare a confrontarsi con i grandi problemi che le pesano sulle spalle. Chiunque sarà il vincitore.

Fra quelli che si sono buttati a fare gli emuli di Trump, quelli che rilanciano sovranismo e antieuropeismo, quelli che sono convinti che comunque vincerà sempre l’italica tendenza al tenere i piedi nel maggior numero di scarpe possibili, c’è un certo campionario di irresponsabilità. Perché bisognerebbe tenere conto di due banali fatti. Se vincesse il sì non per questo saranno immediatamente disponibili i meccanismi nuovi che la riforma mette a disposizione sulla Carta (perdonate il gioco di parole): per rodare e mettere a punto quelli ci vorrà del tempo. Se vincesse il no non avremmo comunque una rilegittimazione dei meccanismi istituzionali di cui oggi disponiamo, perché la maggior parte dei sostenitori di quella partita li considerano superati e semplicemente ne vorrebbero altri, ma non quelli della riforma su cui si vota.

Nell’uno e nell’altro caso il rischio, ma temiamo la certezza, è che entreremo in una fase di resa dei conti sia fra i vincitori che fra i perdenti, perché è diventato sempre più evidente che il referendum è stato trasformato in una occasione per mettere mano al problema del ricambio degli equilibri e delle dislocazioni della nostra classe politica. E’ anzi probabile che la cosa non si limiti alla classe politica, perché questi terremoti hanno poi il loro sciame sismico che si propaga all’intorno nelle varie sedimentazioni delle classi dirigenti in senso lato.

L’inasprimento selvaggio della campagna elettorale è un segnale molto inquietante. Non riusciamo a cavarcela dicendo semplicemente che è la normalità dello scontro politico quando deve coinvolgere quelle che un tempo si chiamavano le masse popolari. Tanto furore è tipico solo delle fasi di svolta. Basti pensare che nei due referendum costituzionali dell’ottobre 2001 e del giugno 2006 non si è registrato nulla di paragonabile a quanto sta accadendo oggi. Allora era lo scontro fra due campi che si sapeva sarebbero rimasti immuni dal risultato delle urne, oggi i campi sono più di due e nessuno uscirà come prima dopo la prova del voto.

Eppure l’Italia avrebbe bisogno di una fase di concentrazione sui suoi problemi di fondo: quello economico, a cominciare dal problema del deficit; quello della risistemazione delle dinamiche sociali interne, a cominciare dal tema della disoccupazione giovanile; quello della definizione del suo ruolo internazionale, a cominciare dal suo posto nell’Unione Europea. E ci limitiamo ad elencare tre grandi nodi, perché non ci vorrebbe grande sforzo per individuare altre questioni aperte.

Ebbene, invece questo disgraziato paese dal 5 dicembre dovrà comunque misurarsi a livello parlamentare con la scrittura di due leggi elettorali, comunque necessarie: quella che andrà a sostituire l’Italicum, chiesta dagli avversari di Renzi, ma promessa anche dal premier; quella che dovrà stabilire come si vota per il Senato, vuoi nella nuova versione, vuoi nella attuale visto che la legge vigente è stata bocciata dalla Consulta. Chi può immaginare che la nostra classe politica, che sarà come si è detto già impegnata a regolare i conti all’interno di ciascuna formazione alla luce di come sarà andato il referendum, sarà capace di lasciare che il sistema si occupi di altro anziché concentrarsi nello scontro per leggi elettorali che ne rimettano in pista le varie componenti?

Teniamo conto che il partito che ha attualmente la maggioranza relativa alla Camera, cioè il PD, uscirà scosso dalla prova referendaria, perché, tanto per cominciare, con qualunque risultato dovrà andare al congresso per decidere se Renzi rimane il leader con tutto il potere che gli deriva da una eventuale vittoria o se deve lasciare il campo a seguito di una eventuale sconfitta. Ma che dire del centro destra, che nel caso di vittoria del sì non potrà fare a meno di chiedere conto ai vari Salvini e compagnia del loro “stile” (mettiamola così) e che in caso di vittoria del no dovrà misurarsi con la OPA ostile su tutta quell’area da parte del leader della Lega? Neppure l’M5S potrà far finta di nulla, perché se vince il no pretenderà di intestarsi gran parte della vittoria, se vince il sì avrà il problema di ridefinire il suo gruppo dirigente, viste le lotte sotto traccia che già lo percorrono.

Per tutte queste ragioni sarebbe bene che le forze responsabili di questo paese avviassero un disarmo programmato: la guerra nucleare non è una grande opzione, perché è quella dove alla fine non vince nessuno. C’è da chiedersi perché la cosiddetta società civile, ma più realisticamente le classi dirigenti non politiche non siano in grado di imporre la resa a questa elementare ragionevolezza. Se non pensano al bene del paese, pensino almeno al loro, che certo non uscirà rafforzato da un contesto in cui tutti lotteranno contro tutti.