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Il discorso inaugurale di Donald Trump

Tiziano Bonazzi * - 25.01.2017
Donald Trump discorso

Nel suo discorso inaugurale Donald Trump è stato profondamente “trumpiano" nei toni e nei contenuti; ma per capirlo occorre andare oltre le nostre reazioni di italiani con una cultura politica italiana e provare a capire come gli americani, o almeno i suoi elettori, lo hanno ascoltato e vissuto.  Vari commentatori d’oltreatlantico hanno scritto che molte delle sue affermazioni potrebbero essere di Bernie Sanders, una vicinanza già notata all’epoca delle primarie; ma non basta. Sanders non sta per iscriversi alla nascente Sinistra Italiana e Trump non è un conservatore tradizionale. Entrambi, prima di tutto, sono degli americani.

Trump nel suo discorso non ha indicato un programma, ha costruito un manifesto, nella tradizione della retorica statunitense. Una retorica popolare che non è nata coi Padri Fondatori - meravigliosi illuministi aristocratici -; ma nei revival religiosi dell’Ottocento, nei discorsi infiammati dei grandi predicatori protestanti davanti a folle bisognose di sicurezza sia per le asperità delle loro vite che per il terrore dell’Inferno. Una retorica che invitava i singoli a cercare Gesù e a farlo direttamente, da soli, con le loro forze. Un fedele e Gesù, senza nessun tramite se non la Bibbia, e l’iniziativa era del singolo fedele. C’era una forza travolgente in quei sermoni, così come nella visione di origine radicale inglese, centrale oltreatlantico fin dalla fondazione degli Stati Uniti, del potere come un “cancro” che si insinua in tutti i governanti, inevitabilmente, e contro il quale non c’è speranza se non nella resistenza di un popolo forte e puro. Il governo, il potere, non sono mai stati del tutto legittimi nel paese più potente del mondo.

Questa retorica risuona nel ritmo scandito, nelle frasi brevi, nella certezza assoluta delle affermazioni (affermazioni, non promesse) di Trump e riporta gli americani che lo hanno votato alla calda sensazione di scoprire se stessi, di tornare a sapere chi sono, di tornare alla verità. Trump per loro è “autentico” al pari delle sue parole. Moltissimi fra i suoi avversari hanno visto in lui la versione ripulita dei white trash, i bianchi americani “spazzatura” con i loro orripilanti vestiti di lustrini, le magliette aderenti tutte bandiera a stelle e strisce, gli stivaletti a punta e la birra in mano. E’ vero, Trump con i capelli incredibili e la smorfietta irritata è proprio così e con i suoi completi scuri da businessman e il pugno nell’occhio della tremenda cravatta rosso-Repubblicano è il trash popolare che si è fatto valere, che è arrivato; ma proprio per questo per tanti è il popolo al potere. Inutile attaccarlo per la sua volgarità, il parlare senza peli sulla lingua da boss di quartiere o per i  miliardi che, agli occhi degli efféti europei o dei liberal efféti, lo rendono tutto tranne che il rappresentante dei lavoratori. Trump per 62.000.000 di americani è il lavoro giunto al potere contro quelli che per decenni hanno sfruttato il popolo arricchendosi: i politici. Non è un caso che egli abbia aperto il suo discorso con la frase: “Per troppo tempo un piccolo gruppo nella nostra capitale si è appropriato di tutto ciò che veniva dallo stare al governo mentre il popolo ne sopportava i costi”. Questo è americanismo puro e così il seguito che martella: “Washington fioriva, ma il popolo non ne condivideva la ricchezza. I politici prosperavano, ma il lavoro mancava e le fabbriche chiudevano. L’establishment proteggeva se stesso, non i cittadini del nostro paese.”. Una boccata di ossigeno per chi si è svegliato, ha visto come va il mondo e ha scoperto in Trump il volto della libertà, della democrazia, dell’americanismo. Il mondo capovolto del potere si rigira e torna a camminare sulle gambe del popolo.

Sgomento? Non per i trumpiani che hanno sentito ancora dell’altro che li rianima e li rincuora. Alle nostre orecchie suona vuoto, o minaccioso, il motto centrale, il fulcro ideale del discorso di Trump, America first, e ben striminzito come programma l’imperativo “compra americano, assumi americani”, evocativo di nostri tempi lontani. Non è così, soprattutto se facciamo attenzione a due altri punti del discorso che ci possono sfuggire o apparire bassamente retorici. Il primo è il quadro a tinte forti di un paese di desolazione ove regnano povertà, crimine, sfruttamento, dove il popolo è dimenticato; ma che “da oggi” con la nuova Presidenza è unito e invincibile, first in tutto. Tornata regno della libertà l’America non cercherà, tuttavia, di imporre il proprio modo di vita agli altri, “ma lascerà che esso risplenda come un esempio perché gli altri lo possano seguire”. Retorica nazionalista d’accatto? Si può dire; ma i trumpiani - e non solo - sentono un richiamo famigliare e antico, quello dei sermoni puritani, le cosiddette “geremiadi”, in cui la pittura violenta dello stato orrendo in cui vive un popolo di peccatori, punizione divina per i suoi peccati, serve a spingere al pentimento e alla rigenerazione. Eleggendo Trump gli americani si sono rigenerati e sono pronti ad andare verso il trionfo, Canaan, il Paradiso, l’America prima in tutto. L’America rigenerata non schiaccerà nessuno, “risplenderà come un esempio”. A noi non dice nulla; ma è un altro potente topos popolare,preso dai puritani del Seicento che approdarono in Massachusetts e mai scomparso, l’America “città sulla collina” che risplende come un esempio per tutte le genti - e la città sulla collina per la Bibbia è Gerusalemme. Gli Stati Uniti nuova Gerusalemme, quindi, gli americani nuovo Israele, nuovo popolo eletto.

Non dico che 62.000.000 di americani siano al corrente di tutto questo e abbiano studiato la “teologia del patto” calvinista. Dico che Trump sapeva benissimo di toccare corde profonde del suo pubblico. Le corde nutrite fin dalle elementari da libri di storia che partono dall’immagine, fasulla ma potente, dei puritani che vengono a costruire la libertà in America - la nuova Gerusalemme -, del popolo americano che si ribella agli inglesi oppressori, che si riunifica all’insegna della libertà dopo l’epopea - l’epopea! - di una Guerra civile che ha distrutto lo stigma della schiavitù e che da lì è partito per costruire il più potente paese industriale al mondo, la nazione che ha liberato gli altri popoli dall’elmo chiodato tedesco, dai fascismi e dal comunismo. Il popolo tutto classe media operosa e benestante, la classe media di strenui lavoratori, di pacifici padri di famiglia, di difensori di un pluralismo senza macchia, fedeli alla bandiera e a Dio. Molto di questo è ideologia; ma vive nell’immaginario collettivo, nell’io ideale di milioni di americani che esaltano le loro lontane radici etniche con la bandiera americana simbolicamente affiancata a quella italiana o polacca o irlandese nelle feste popolari per la Madonna o i santi. Un’italianità che solo in America si è riscattata ed è giunta a fruizione e che non si vuol perdere a opera di sinistrorsi senza Dio - senza un qualche Dio cristiano -, di femministe incapaci di allevare figli, di neri che preferiscono essere servi del welfare pubblico piuttosto che buoni lavoratori padri di famiglia, di latinos che svendono il proprio lavoro a danno dei lavoratori americani. O di politici che per i loro profitti affamano gli americani portando le fabbriche all’estero.

Il discorso inaugurale di Trump, battagliero, cattivo, autentico, è stato una scossa elettrica per tutti i trumpiani d’America e lo dicono i social media, le reazioni estatiche, addirittura vendicative dei siti e dei blog, che non si possono definire conservatrici, perché il conservatorismo reaganiano, quello dell’establishment, è tutt’altra cosa. Sono i corni d’ariete che suonarono davanti alle mura di Gerico a rimbombare ancora.

E con questo? La domanda è legittima. Il popolo americano ha trovato il suo vendicatore? Cosa vuol dire la prima mossa del nuovo Presidente che nella Camera Ovale ha già fatto sostituire alle finestre le tende rossicce messe da Obama con altre color oro? E’ tornata l’età dell’oro per gli americani o è l’oro più squillante a essersi installato alla Casa bianca? Ancora una domanda legittima alla quale spero non si vogliano dare risposte italiane perché gli americani hanno diritto di essere americani anche quando si teme che se siano dentro, non fuori dalla Gerico assediata.

 

 

 

 

* Professore emerito di Storia Americana - Università di Bologna