Il "caso Umbria"
La convergenza di Pd e M5S su un candidato alla presidenza della regione Umbria, per le elezioni del 27 ottobre prossimo, rappresenta un elemento di novità nel panorama politico nazionale. Per la prima volta, sia pure con le cautele che i partiti della nuova coalizione cercano di utilizzare per definire l'intesa umbra (civica, ma in realtà politica) i Cinquestelle non si presentano da soli alle regionali, dopo aver perso tutte le consultazioni di questo tipo dal 2010 ad oggi. È, come quella del 2018, una svolta. Se prima non ci si alleava con nessuno per dar vita ad un governo (nel 2013 la proposta del Pd fu respinta in modo molto brusco, durante l'incontro trasmesso in streaming), in questa legislatura i pentastellati hanno prima creato una maggioranza con la Lega (col pretesto, però, del "contratto", che da un lato serviva a delimitare le aree e i provvedimenti di rilievo per Carroccio e M5S e dall'altro giustificava l'esistenza di un'alleanza che veniva presentata come basata sulle cose da fare e non come una coalizione classica), poi un tripartito con Pd e Leu (senza più contratti, con i ministri divisi secondo criteri ben precisi; insomma, un governo come tanti altri). L'ultimo elemento di diversità, quello dell'ostinazione a presentarsi da soli alle regionali anche a costo di perdere (pur di non "contaminarsi" con gli altri) è venuto meno in questi giorni. La lunga marcia dei Cinquestelle verso l'inserimento nel sistema può dirsi compiuta, al di là di alcuni elementi non tradizionali dal valore più mediatico che sostanziale. È dunque perfettamente naturale che il Pd - in gravissima difficoltà in Umbria, dopo gli scandali e le sconfitte in quasi tutti i comuni principali - abbia proposto al M5S un'alleanza elettorale che, un anno fa, alcuni pensavano che sarebbe stata realizzata prima o poi fra Cinquestelle e Lega anche in ambito nazionale. Nel 2018, però, già il salto dal "soli contro tutti" al "contratto" era abbastanza difficile da far passare, in una comunità abituata da circa un decennio all'autosufficienza e all'alterità rispetto alle altre forze politiche. Inoltre, le magre percentuali (rispetto alle elezioni per il Parlamento nazionale) raccolte in ogni occasione dai Cinquestelle alle regionali, rendevano inutile una coalizione con una Lega collegata al centrodestra (cioè a FI e FdI, forze estranee alla maggioranza governativa gialloverde). Infine, nel 2018 non c'era un nemico comune da battere, perché il Pd e il centrosinistra perdevano già regolarmente tutte le sfide regionali, senza bisogno che al centrodestra venisse in mente di allargare il campo al M5S. Poi c'è stato il "tradimento" di Salvini, che ha dato modo ai pentastellati di accettare la nascita di un nuovo governo - stavolta con Pd, Leu e ora anche Iv, il partito di Renzi - e, per contrastare l'ascesa della Lega, è stato rimosso anche il tabù delle alleanze regionali, sia pure "una tantum" (poi si vedrà, eventualmente). Questa decisione permette ai Cinquestelle di provare ad arrivare al governo di una regione - anche se come partner numericamente minoritario rispetto al Pd - non solo per avere una presenza in un esecutivo regionale (in ambito locale ci sono invece comuni amministrati dal M5S, com'è noto, fra i quali quelli di Roma e Torino) ma per fermare la marcia (inarrestabile?) di Salvini e del centrodestra. Tuttavia, si tratta di un azzardo. L'Umbria è una regione ormai non più rossa, nella quale il centrosinistra potrebbe perdere anche alleandosi coi pentastellati. Un conto, però, è uscire sconfitti in una competizione come quelle degli ultimi anni (con il centrosinistra, il Movimento e il centrodestra ciascuno per proprio conto), soprattutto in una regione non decisiva come l'Emilia-Romagna o la Toscana; un altro conto, invece, è fare una sorta di fronte antisalviniano (che coincide col perimetro delle forze di governo nazionali) col rischio di trasformare il voto umbro in un referendum pro o anti Lega e pro o anti Conte-bis. Su un terreno, poi, dove il M5S può apportare pochi voti, dove la situazione è comunque in bilico e dove, cosa più importante, un'eventuale vittoria del centrodestra farebbe molto più rumore rispetto alle altre conseguite contro un centrosinistra non allargato ai Cinquestelle. La valutazione fatta dal Pd, evidentemente, è che la riconquista dell'Umbria vale il rischio di elevare il grado di politicizzazione e di nazionalizzazione del test locale, coinvolgendo nella contesa - di fatto - l'immagine e la stessa tenuta del governo e dando definitivamente alla Lega il ruolo di avversario tanto forte da poter essere battuto solo grazie ad una "union sacrée". Quella del M5S, invece, può essere la mossa tattica di chi non avrebbe comunque vinto quella competizione ma che può tornare in gioco (e magari entrare in una giunta regionale) dimostrando ai propri elettori incerti e forse delusi che l'incontro col Pd è stato un ottimo affare per il Movimento. Dal canto suo, anche Salvini ha il suo tornaconto dall'intesa giallorosa umbra: se vince, sfonda nel Centro Italia, conquista una regione già rossa e batte la coalizione che governa il Paese, alimentando verosimilmente l'onda del consenso delle europee (che aveva avuto un lieve moto di riflusso dopo l'imprevista nascita del Conte-bis); se perde (cosa che - sia pure poco probabilmente - gli sarebbe potuta accadere anche col centrosinistra da solo) può dire che il governo dei "rossi" ha dato vita ad un'alleanza eterogenea e forse innaturale solo per battere il campione del "vero popolo" (lui). In altre parole, in Umbria Salvini ha a disposizione un ottimo risultato (la vittoria), uno accettabile (la sconfitta, purché sul filo, massimo sui 10-12 punti di distacco, perché i voti dei Cinquestelle alle europee furono pari al 14%), uno negativo ma spendibile (alle politiche Pd e M5S ebbero il 55% contro il 37% del centrodestra: se alle regionali andasse così, la Lega potrebbe dire che solo unendo due forze del 27-28% si è battuta la sua corazzata vicina al 40%). Anche Di Maio ha almeno due risultati su tre a disposizione: la vittoria, la sconfitta con un margine modesto (a dimostrazione che i Cinquestelle hanno dato il loro apporto, ma che alle regionali i loro voti sono fisiologicamente di meno che in altre occasioni, quindi la colpa è del Pd); c'è poi un risultato negativo, in caso di vittoria con un margine superiore al risultato di lista del M5s (che risulterebbe irrilevante) o di sconfitta con più del 14% ottenuto dai pentastellati alle europee (dimostrando, in pratica, che l'apporto del Movimento è stato inutile). Zingaretti è l'uomo politico che rischia di più, non solo perché l'offerta di alleanza è venuta dal Pd e perché - in caso di sconfitta - potrebbe diventare non riproponibile altrove, ma perché l'unico risultato utile è la vittoria, meglio se larga (per minimizzare l'apporto pentastellato). Insomma, il 27 ottobre il Pd punta alla roulette su un solo numero: o vince, o perde tutta la posta. In questa circostanza (per chi dipinge Renzi come il leader delle sfide temerarie, contrapposto ad uno Zingaretti prudente uomo di apparato) l'idea che il segretario del Pd si lanci in un'operazione così spericolata dovrebbe far riflettere.
di Luca Tentoni
di Leila El Houssi *
di Francesco Provinciali *