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I confini della politica

Francesco Provinciali * - 05.12.2020
Vaccino Covid

Non posso dimenticare queste parole pronunciate da Sandro Pertini: “più degli uomini – che sbagliano, tradiscono e cadono volutamente nell’errore – sono importanti le idee, perché si codificano nei valori che restano immutabili nel tempo e sono di monito e di esempio alle azioni umane fino a diventare motivo e senso dell’esistenza”. Ascoltando certi siparietti televisivi, le invettive che i politici 4.0 e i commentatori tuttologi si scambiano usando perentorie affermazioni infarcite di luoghi comuni e la generica, ripetitiva e riduttiva banalità di taluni peones istruiti dai rispettivi capi, mi rendo conto che da quando idee e ideali sono stati sostituiti dalle opinioni è come se vivessimo in una nebulosa imperscrutabile, senza radici, senza orizzonti e senza meta, una sorta di limbo dell’indeterminato in cui  si affievoliscono le identità sociali, si radicalizzano le individualità e si frammentano l’autorità, il merito certificato e i livelli decisionali.

Sono confetti avvelenati di superficialità, incompetenza ed arroganza che intossicano la vita sociale ed educano al tutti contro tutti, cioè al peggio. Non so se ciò sia complementare a quella “liquidità” che Zygmunt Bauman aveva magistralmente letto nel corpo sociale della post-modernità e che ritroviamo ancor più rarefatta dentro ciascuno di noi. Il relativismo etico ha preso il sopravvento, come i diritti sui doveri.

L’abbandono all’oblio, assecondando la teoria del cominciamento e dell’anno zero, ha cancellato persino la memoria dei fatti della Storia: ma la ruota gira impietosa e corsi e ricorsi bussano alla porta della vita senza annunciarsi, come direbbe Dostoevskij, “all’improvviso”. O presentano il conto di scelte sbagliate e dell’indifferenza perché siamo orfani di una visione diacronica delle cose e della loro evoluzione. L’assenza del principio di motivazione e di un sentimento di senso civico condiviso, di cui ci riferiscono De Rita e il Censis, ci rendono monadi isolate che si riaggregano in una sorta di poltiglia sociale: privacy e trasparenza idolatrate come i paradigmi della correttezza del nostro agire, finiscono con il mettere le manette ai polsi delle relazioni interpersonali, supportate da una burocrazia paralizzante che oggi può ben essere definita come la forma di violenza simbolica più pervasiva, rarefatta e paralizzante.

A cosa serve, a chi, la politica, se essa è diventata il luogo della retorica autoreferenziale?

Potremmo meglio dire: quale politica, quali partiti? Quelli diventati comitati d’affari? Senza andare troppo lontano nel tempo, il secondo dopoguerra fu caratterizzato da una penetrazione palpitante delle ideologie: si celebravano i congressi e anche nel conflitto ideologico veniva legittimata una partecipazione fatta di convincimenti e di immedesimazione, la crescita del Paese era legata a proposte di modelli di società, a scelte da fare, a progetti per il futuro.

L’idea di “Europa” come patria comune, coagulo di nazioni oltre i nazionalismi era nata da menti che vedevano oltre: De Gasperi, Adenauer, Schumann, Spinelli. Anche la politica vuole i suoi “geni”.

Era una visione prospettica lungimirante, l’economia le era ancillare. Oggi la geoeconomia anche a livello planetario sta lentamente schiodando le pareti delle case costruite con le alleanze della geopolitica e riaffiorano progetti espansivi che mirano all’egemonia e ai rapporti di primazia mercantile mentre l’ONU e la NATO perdono capacità di catalizzare consensi e di esercitare azioni negoziali e di controllo.

Ripensando poi alla Storia più remota viene da pensare al fervore di Mazzini, di Gioberti,  e Cattaneo: dopo secoli di sottomissioni e di frazionamenti la ricomposizione dell’unità nazionale sotto una sola bandiera fu un fatto storico e politico, ma anche culturale, ideologico e istituzionale di enorme portata. Ci si chiede oggi che cosa resti di quella identità faticosamente assemblata. Esemplare la vicenda lunga quanto la pandemia del conflitto Stato-Regioni in materia di provvedimenti e restrizioni via via assunte.

I Governatori non esistono nella Costituzione, si sono autopromossi tali sul campo.

La personalizzazione della politica ha pervaso le istituzioni, la frammentazione inibisce lo spirito unitario.

Dopo le guerre mondiali, il ventennio fascista e la lotta di liberazione nazionale, la Costituzione Repubblicana rappresentò la legittimazione formale della tutela delle libertà individuali e sociali, dei principi di uguaglianza,  democrazia, della primazia del lavoro, della sovranità popolare, nel convincimento che il decentramento autarchico costituisse uno strumento di partecipazione allargata ed estesa alle periferie, senza che fosse mai messo in discussione il principio di quella unità nazionale faticosamente raggiunta. Se chiudiamo gli occhi e pensiamo agli avvenimenti della Storia accaduti sotto lo stesso cielo negli ultimi due secoli viene spontaneo pensare agli aspetti irrazionali della politica incapace di darsi limiti e confini. La globalizzazione ha illuso chi la pensava come agente di compensazione delle ricchezze nell’ottica di un equilibrio mondiale riscritto secondo i paradigmi dei consumi per tutti e delle uguaglianze distributive.

Il suo panta rei ha generato polarizzazioni e miraggi, producendo enormi sacche sociali di nuove povertà, il declassamento della borghesia, il default delle imprese e dei posti di lavoro e il risiko bancario.

Per questo è arduo oggi condividere progetti a livello di alleanze strategiche, lo vediamo in Europa quanto sia difficile negoziare accordi stabili (la storia del Recovery Fund ha palesato la consapevolezza che occorreva decidere qualcosa per non soccombere ma tutto è per ora solo sulla carta: la nostra legge di Bilancio non tiene ancora conto di queste provvidenze finanziarie), figuriamoci a livello mondiale: mi viene in mente il profetico aforisma di Henry Kissinger,  riferito da Sergio Romano sul Corriere della Sera: “Gli Stati non hanno ne’ amici permanenti ne’ nemici permanenti: hanno solo interessi”. Questo è il nuovo paradigma nell’era orfana delle ideologie: dovremmo capirlo anche dalle nostre parti, quando, unici o quasi in Europa, sottoscriviamo Memorandum e intese che ci sovraespongono a livello di equilibri politici ed economici internazionali alle mire espansionistiche di chi è più forte di noi. Sul fronte della politica estera e di quella interna si appalesa una involuzione che trasuda incertezze, ritardi, contraddizioni, dietrologie non solo percepibili da palati fini.

Troppi errori, troppi dietro-front, troppe incertezze, troppi ‘gerundi composti’ nel linguaggio corrente: stiamo lavorando, stiamo progettando, stiamo rivedendo, stiamo decidendo.

La vicenda della chiusura e riapertura delle scuole è emblematica, le tribolazioni del sistema sanitario, dei suoi operatori e delle sue strutture fa ripensare in continuazione alle divisioni sul MES, il ricorso sistematico e incalzante ai DPCM (estremamente farraginosi e complicati) rispetto ai compiti della funzione  legislativa del Parlamento (in Germania è bastata una seduta del Bundestag per legiferare in un’unica soluzione le misure della fase-2 del lockdown), i bisticci politici e scientifici sulle misure da intraprendere e poi correggere e infine magari emendare ricordano i dubbi del manzoniano Don Ferrante sulla peste: se si trattasse di ‘accidente’ o di ‘sostanza’ salvo poi morirne comunque. Le misure frammentarie a scadenza dei bonus no limit, le incerte politiche fiscali, le agevolazioni compensative assoggettate ad una burocrazia bizantina e omicidiaria: sono segni di debolezza sistemica e di incertezze procedurali. Brilla - come detto - il dissidio Stato-Regioni su ogni aspetto della gestione delle misure, con contrasti violenti ove non tristemente folcloristici e mediatici, senza contare la lenta espunzione dei corpi di intermediazione sociale necessari per stemperare i conflitti e consentire ai cittadini di contare su riferimenti raggiungibili, in un contesto di policentrismo decisionale e gestionale.

Una politica che confonde il livello esecutivo con quello legislativo e deborda nelle prerogative della magistratura contando su ‘assist’ da restituire, che si avvale degli scienziati salvo disattenderli, che è incapace di assumere decisioni di medio-lungo periodo fa torto a Montesquieu.

Ma una politica che procede a spanne, senza un progetto condiviso, con una classe dirigente spesso incompetente e lontana dai bisogni della gente, legittima il gap tra paese legale e paese reale, lasciandoci tristemente soli, preda di ansie e timori, privi di certezze e assunzioni di responsabilità emotivamente rassicuranti. La politica per sua natura non crea valori: ha senso se è capace di garantire l’esistenza e il rispetto dei valori che crea l’uomo. Se il prossimo step è il pranzo di Natale e poi il Veglione di Capodanno e già si mette in moto tutto il caravanserraglio dei favorevoli, dei contrari, dei dogmatici e dei negazionisti vuol dire che le lezioni dell’anno in corso non sono servite. Il confine più difficile da superare, oltre le difficoltà oggettive, è la metabolizzazione di un senso civico condiviso, di una coscienza soggettivamente avvertita. Ma se la proiezione del pensiero si ferma qui e non va oltre, salvo la concessione di qualche altro bonus di circostanza, vuol dire che siamo fuori da ogni riferimento culturale del concetto di politica dove responsabilità e competenza sono ininfluenti convitati di pietra.

Attendiamo con ansia i vaccini: dobbiamo affidarci alla scienza, lasciando alla politica il compito di applicarla alle evidenze. Per illuminare il futuro non possiamo affidarci ad una torcia dalla luce fioca che non va oltre le poche spanne che ci separano dal bollettino serale delle statistiche sanitarie.

  

 

 

 

* Già dirigente ispettivo MIUR