Ultimo Aggiornamento:
17 aprile 2024
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Gli alberi e la foresta. Sul negoziato tra Grecia e UE/FMI

Duccio Basosi * - 02.07.2015
Crisi greca

La vicenda del negoziato tra governo greco e UE/FMI, sul rinnovo delle linee di credito aperte da queste istituzioni negli anni scorsi verso Atene, si sta avvitando in una sequela di colpi di scena "dell'ultimo minuto" (rottura delle trattative, convocazione di referendum, nuove proposte in extremis). Si tratta di eventi che meritano di essere seguiti, visto che dai loro sviluppi dipenderà molta parte della politica e dell'economia europea dei prossimi mesi. Tuttavia, l'impressione è che, giorno dopo giorno, la discussione pubblica si concentra sempre più sulle foglie dell'albero, perdendo di vista la foresta nel suo insieme. Si discute appassionatamente, sulla stampa e sui social network, delle tattiche negoziali delle due parti e delle disposizioni della Costituzione greca in merito alla convocazione dei referendum. Si perde progressivamente di vista, invece, il quadro complessivo, che è dato dal fallimento spettacolare, in Grecia, di tutte le politiche di austerità raccomandate negli ultimi anni dai creditori internazionali agli stati indebitati. Per comprendere la posta in gioco in Grecia, forse è il caso che questo quadro venga ricostruito.

Anzitutto, il contesto del negoziato è quello della "condizionalità stretta", che il FMI (seguito poi dalla Banca Mondiale) iniziò a teorizzare nei primi anni Ottanta, quando si trattava di affrontare la "crisi del debito estero latinoamericano": da allora, l'istituzione internazionale che emette un prestito (o ne rinnova uno precedente) non negozia solo i termini della restituzione (rate, scadenze, interessi, ecc.), ma anche le politiche che il richiedente dovrà mettere in pratica per ripagare la somma ricevuta. Rispetto alle analisi semplicistiche, che vogliono "i greci" da un lato e i creditori dall'altro, ciò significa che i prestatori di ieri, creditori di oggi, sono anche corresponsabili del risultato delle politiche intraprese dal richiedente di ieri, debitore di oggi.

Nella pratica, poi, ciò si è tradotto nell'applicazione di ricette di "austerità", in Grecia come nel resto dei Paesi europei che hanno fatto ricorso ai prestiti internazionali negli ultimi anni (Spagna, Portogallo e Irlanda, principalmente). Si tratta dell'idea, cara al pensiero economico dominante di matrice neoliberale, secondo la quale, in una situazione di indebitamento e recessione, una riduzione della spesa pubblica, soprattutto quella relativa al welfare, crea le condizioni per una successiva espansione economica (liberando risorse per altri impieghi, diminuendo il costo del lavoro, costringendo le persone a lavorare di più). Si tratta di un'idea che i teorici settecenteschi del liberalismo derivavano da una matrice religiosa protestante (che evocava la virtù del risparmio e della frugalità), ma che recentemente è stata ripresa in chiave teorica dagli studi sull'"austerità espansiva" di Alberto Alesina. Da questo punto di vista, il caso della Grecia, è solo l'ultimo caso di una trafila che inizia con l'America Latina nel 1982, prosegue con il Sudest asiatico e con la Russia nei tardi anni Novanta, per tornare in America Latina nel 2001 e approdare in Europa dopo il 2008. Il problema è che questa idea di solito non funziona. Come ha mostrato magistralmente Mark Blyth nel suo recente Austerity: The History of a Dangerous Idea, la riduzione consistente della spesa pubblica in un periodo di recessione ha polarizzato le diseguaglianze all'interno di tutti i Paesi e le aree sopra menzionate, ma i casi in cui poi si è effettivamente verificata un'espansione economica sono talmente pochi che, per spiegarli, è più semplice fare ricorso alla vecchia massima sugli orologi rotti che alla teoria economica.

La Grecia non ha fatto eccezione: coerentemente con i programmi di "aggiustamento" intrapresi negli ultimi cinque anni (e al contrario di quanto tuttora si legge da molte parti), la Grecia ha un forte avanzo primario di bilancio. Per coloro che considerano ciò un simbolo di virtù, si tratta cioè di un Paese estremamente virtuoso. Il problema è che il prezzo per ottenere tale avanzo primario è stato un crollo del prodotto interno lordo del 25%: un Paese che non produce difficilmente può ripagare alcunché, gli interessi salgono, il servizio del debito aumenta e il debito totale sfugge completamente al controllo. Nuove e sempre più drastiche misure di austerità hanno rinnovato di anno in anno questa spirale discendente tra idebitamento e impoverimento di massa, tanto più che, come già nella crisi latinoamericana degli anni Ottanta, la maggior parte dei cosidetti "aiuti" alla Grecia sono stati, in realtà, delle virtuali "partite di giro" con cui le istituzioni internazionali hanno coperto (con denaro pubblico) l'incauta esposizione nella quale erano incorse, nei primi anni 2000, molte banche private (tedesche e francesi soprattutto).

In questo contesto, la novità è stata rappresentata, dall'inizio del 2015, dall'arrivo al governo, ad Atene, di una coalizione imperniata sul partito di sinistra Syriza, intenzionata a mettere in discussione tutto l'impianto teorico delle politiche sin qui seguite. Si tratta di una posizione che, in astratto, ha moltissimi meriti e che, tuttavia, si scontra nella pratica con tre elementi, diversi ma correlati tra loro: da un lato Atene ritiene, a ragione, di aver comunque necessità di iniettare denaro fresco nella propria economia, proprio per dare corpo alle politiche di spesa pubblica auspicate; dall'altro, in quanto parte dell'euro, Atene non può stampare tale denaro in proprio o svalutare la propria moneta; infine, e soprattutto, coloro ai quali Atene chiede il rinnovo dei prestiti non hanno alcuna intenzione (per una varietà di motivi) di mettere in discussione il dogma dell'"austerità espansiva" (paradossalmente, si dovrebbe aggiungere, visto che l'inefficacia di tali politiche è stata candidamente ammessa dallo stesso FMI, nel suo World Economic Outlook del 2012). Sembrerebbe una posizione impossibile e, in effetti, non sono pochi i commentatori che evocano il confronto tra Davide e Golia. Se, tuttavia, ancora la questione non si è risolta con la sconfitta di Davide, è perché la minaccia latente di un'uscita (o un'espulsione) di Atene dall'euro rappresenta un'arma tutt'altro che spuntata nelle mani dei negoziatori greci, vuoi per i suoi temuti effetti sistemici sulla valuta europea, vuoi per i suoi possibili effetti politici in una UE sempre più "euroscettica", vuoi infine perché potrebbe associarsi all'apertura di nuove relazioni economiche e diplomatiche di Atene con Pechino o Mosca.

Come evolveranno i rapporti di forza tra le parti e quali saranno gli esiti della vicenda lo diranno le prossime settimane: è bene aver presente, tuttavia, che quella tra Atene e EU/FMI non è una partita su una specifica richiesta di rifinanziamento di un debito (o, peggio, un derby tra euro e dracma) ma uno scontro molto più ampio tra due visioni radicalmente alternative della politica e dell'economia.

 

 

 

 

* Duccio Basosi insegna Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università Ca' Foscari di Venezia