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Gaza e Parigi

Michele Marchi - 26.07.2014
Sinagoga a Creteil

Ad osservare le immagini dei disordini scoppiati nel corso delle manifestazioni pro-Palestina di sabato e domenica scorsa nei pressi della fermata della metropolitana parigina di Barbès e a Sarcelles, cittadina di 60 mila abitanti della periferia nord della capitale, viene da affermare: Gaza e Parigi sono davvero vicine! Senza estremizzare, si può affermare che la Francia è il Paese europeo nel quale l’ennesimo incendiarsi del conflitto israelo-palestinese ha avuto, sino ad oggi, maggiori ricadute di natura politica e sociale.

 

Barbès e Sarcelles tra politica e opinione pubblica


I gravi incidenti dello scorso fine settimana sono innanzitutto stati amplificati dal fatto che le due manifestazioni, degenerate in attacchi alle forze dell’ordine, lanci di bottiglie incendiarie, roghi di bandiere israeliane, sino al tentato attacco alla sinagoga di Sarcelles, non erano state autorizzate dal governo. Mentre nel Paese erano state ammesse circa una sessantina di altre manifestazioni di sostegno alla causa palestinese, nel caso di Barbès si era ritenuta troppo sensibile l’area e nel caso di Sarcelles stiamo parlando della cittadina con la più alta percentuale di ebrei rapportata alla popolazione (una comunità di circa 15 mila ebrei, su 60 mila abitanti) e con la percentuale di giovani di origine maghrebina e sub sahariana più alta di Francia.

L’opinione pubblica ha condannato piuttosto compattamente le violenze. Un’ampia maggioranza dei francesi considera allo stesso modo responsabili del conflitto palestinesi e israeliani. A dividersi, come oramai consueto, sono stati i due principali partiti politici. Nel PS possono essere individuati in maniera netta due fronti. Quello dei “governativi”, riunito attorno al Presidente Hollande e al suo Primo ministro, non ha esitato a condannare con fermezza gli scontri e a difendere la scelta di negare il permesso per le due manifestazioni incriminate. Di tutt’altro avviso una trentina di parlamentari socialisti “frondisti”, contrari non solo a questo divieto ma addirittura pronti a partecipare a future manifestazioni a titolo personale. Più che il timore dell’ennesima “dissidenza” interna al partito, Hollande e ancora di più Valls, hanno stigmatizzato come irresponsabili queste scelte e hanno espresso tutta la loro preoccupazione per lo “spettro del comunitarismo” che sembra sempre più diffondersi nel Paese.

Se si passa all’UMP, si trovano nuovamente due fronti. Da un lato anche qui i “governativi”, rappresentati dai tre “traghettatori” del dopo Copé (Fillon, Juppé e Raffarin), i quali hanno avuto un approccio istituzionale, di fedeltà ai valori della Repubblica e di conseguenza hanno appoggiato le decisioni della coppia Hollande-Valls nella gestione del difficile dossier. Non altrettanto hanno però fatto alcuni fedelissimi dell’ex presidente Sarkozy, che hanno colto l’occasione per stigmatizzare l’incoerenza e il dilettantismo politico dell’attuale inquilino dell’Eliseo.

 

Oltre la cronaca, gli elementi sistemici


Al di là della contingenza politica e dei problemi di leadership dei due schieramenti, si possono individuare alcuni importanti elementi sistemici, utili per contestualizzare i gravi fatti dell’ultima settimana.

Il primo di questi è un dato da non sottovalutare: in Francia vive la percentuale più alta d’Europa occidentale di cittadini ebrei, lo 0,5% della popolazione, alla quale si deve accostare il 7,5% della popolazione che si dichiara mussulmana (basti pensare che in Germania siamo attorno allo 0,3% di ebrei e al 5,7% di mussulmani).

A questo si deve aggiungere un secondo dato: una preoccupante diffusione dell’antisemitismo. Il Service de protection de la communauté juive (SPCJ), organismo autorevole, anche se di parte, ha parlato per il 2012 di un +58% di casi di antisemitismo, con i clamorosi fatti di Tolosa (quattro morti di fronte alla scuola ebraica) e di Sarcelles (ordigno esplosivo lanciato all’interno di un supermercato kasher, per fortuna senza provocare vittime). Questa diffusione, poggiando su una preoccupante quanto solida tradizione storica (da Dreyfus a Vichy, basti pensare che proprio tra il 16 e 17 luglio si commemora la tragica retata del Vel’ d’Hiv), è strettamente legata alle sempre crescenti difficoltà di integrazione degli immigrati di seconda e terza generazione, in particolare in quelle polveriere a cielo aperto che sono le banlieues delle principali città di Francia.

Un terzo elemento sistemico deve essere riferito alle oggettive difficoltà dei principali soggetti politici nell’affrontare in maniera univoca quella che, per semplicità, si può definire la questione israelo-palestinese nel post ’48. Il de Gaulle resistente ha ottimi rapporti con il mondo ebraico. Non altrettanto si può affermare del Generale presidente della Quinta Repubblica che, in occasione della guerra dei Sei giorni, non risparmia parole di fuoco per Israele (parlando di “ebrei sicuri di se stessi e dominatori”), inaugurando una svolta geopolitica filo-araba per compensare le difficoltà con quel mondo dopo la lunga e traumatica parentesi algerina. Solo la rupture di Sarkozy metterà in discussione la politica filo-araba proseguita da Pompidou, ma soprattutto da Chirac. Quanto alla sinistra repubblicana ed in particolare socialista nel 1967 si presenta compatta nel condannare le parole di de Gaulle, con una petizione di sostegno ad Israele firmata tra gli altri da Mitterrand, Mollet, Mendès-France ma anche dai centristi Lecanuet e Giscard d’Estaing. E’ però nel 1982 con il discorso di Mitterrand alla Knesset che il PS, pur ribadendo con forza il diritto alla sopravvivenza di Israele, parla in maniera esplicita del diritto alla nascita di uno Stato palestinese sovrano. E infine Jospin, ad inizio XXI secolo, si spenderà per spostare nettamente la barra del partito in direzione della causa palestinese.

Per rilevare il quarto ed ultimo elemento sistemico è necessario insistere su una dimensione più propriamente diplomatica. La politica filo-israeliana di Sarkozy (strettamente correlata alle sue aperture in direzione di Washington) non è stata intaccata dall’arrivo di Hollande alla presidenza. Su questo tema la coppia Hollande-Fabius si è inserita nel solco della continuità. Non a caso l’attuale inquilino dell’Eliseo è stato accusato di un sostegno eccessivo nei confronti di Tel Aviv al momento dello scoppio delle prime ostilità il 9 luglio scorso e ha dovuto produrre numerose rettifiche, ribadendo che l’obiettivo di Parigi è la promozione della pace nell’area. La realtà parla di una politica francese in Medio Oriente con scarsi margini di indipendenza da quella condotta da Washington. In parte anche perché una eventuale proposta alternativa, magari da identificarsi come “europea”, si scontra con gli handicap di un’Unione a 28 membri, tutti gelosi della loro autonomia in politica estera.

In definitiva Gaza e Parigi sembrano davvero pericolosamente vicine. Il dramma mediorientale finisce per contaminare, con la sua onda lunga di odio, un dibattito politico interno e una politica estera dominate da una molteplicità di criticità, di natura contingente, ma anche di matrice sistemica.