Ultimo Aggiornamento:
03 giugno 2023
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Forme di governo e leadership dell’esecutivo

Pasquale Pasquino * - 13.05.2017
Theresa May e Angela Merkel

Le forme di governo nei regimi democratici (fondati su elezioni libere, ripetute e competitive) erano distinte, se non si tiene conto dell’eccezione svizzera, in presidenziali, parlamentari e semi-presidenziali (meglio, ad esecutivo dualista).

Negli ultimi decenni, almeno sul continente europeo, dove non esistono sistemi presidenziali (come quello in vigore da sempre negli Stati Uniti, dove l’esecutivo non è responsabile politicamente di fronte al parlamento), le forme di governo dovrebbero essere distinte in base ad un criterio diverso da quello tradizionale (parlamentare vs. semipresidenziale). Ciò richiede la presa in conto dei rapporti fra il sistema dei partiti e la legge elettorale.

Dove esistono sistemi elettorali maggioritari (come nel Regno Unito) o comunque governi tendenzialmente stabili (Germania), il leader del partito che vince (GB) o arriva primo alle elezioni (Germania) è, al tempo stesso, il capo del governo ed il capo del partito di maggioranza (un “uomo -anzi donna- sola al comando” May, Merkel ?!?). Il rapporto fra il legislativo e l’esecutivo non è di contropotere, ma di cooperazione e, in via eccezionale, di controllo del parlamento sull’esecutivo, solo in caso di comportamenti e di scelte da parte del capo dell’esecutivo che vadano direttamente contro gli interessi politici e le scelte ideologiche del partito di cui è il leader (si pensi al caso di M. Thatcher sfiduciata dal suo partito).

Dove il sistema partitico e la rappresentanza è fortemente frammentata (in generale come conseguenza di un sistema elettorale proporzionale), il leader del partito più importante non ha interesse ad essere primo ministro. Quest’ultima posizione è molto fragile, come sappiamo dalla storia della nostra Repubblica, almeno fino agli ultimi venti anni, e certamente ora di nuovo. I governi, necessariamente di coalizione durano poco, e non è facile per il primo ministro restare in carica per lungo tempo, come accade invece nei sistemi politici considerati prima. I primi ministri dei governi di coalizione a più partiti sono dei “fusibili”, per usare l’espressione che si adopera spesso a proposito del primo ministro in Francia. Il Presidente francese resta in carica per 5 anni (7 prima dell’introduzione del quinquennat) e il suo primo ministro “salta”, come un fusibile, quando qualcosa va storto o quando questo convenga alla strategia politica del Presidente.

Matteo Renzi dovrebbe tener presente questa a prima vista sorprendente analogia fra due sistemi costituzionali così diversi sulla carta come quello dell’Italia proporzionale e della 5a Repubblica francese. Renzi è per alcuni anni ora il di- nuovo segretario del PD. Se come è verosimile, la prossima legislatura sarà eletta con il sistema proporzionale risultante dalle ablazioni sulle leggi elettorali operate dalla Corte costituzionale (sentenze 1/14 e 35/17), il segretario del partito avrà interesse a restare al Nazareno, invece che (provare a) tornare a Palazzo Chigi. È peraltro possibile che per un po’ a Palazzo Chigi non ci vada nessuno, nell’incapacità del prossimo Parlamento di esprimere una maggioranza. Ma è, in ogni caso, più ragionevole da parte del PD e del suo segretario che ci vada un fusibile piuttosto che il segretario del partito. Il NO al referendum e le sentenze dalla Consulta sulle leggi elettorali hanno riportato l’Italia ai tempi dell’egemonia democristiana, se tutto va bene. Perché c’è da temere (contrariamente a coloro i quali sostenevano che senza cambiare nulla sarebbe tutto andato per il meglio) che si finisca nell’anarchia politica. In questo panorama politico fra il vecchio e un nuovo, che non fa certo pensare alla Francia di Macron, è meglio che il segretario del PD non cerchi di camminare sulle sabbie mobili dell’esecutivo prossimo venturo, quando ce ne sarà uno.

 

 

 

 

* Distinguished Professor in Politics and Law, at New York University