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Europa-Italia: un buon primo tempo

Paolo Pombeni - 22.07.2020
Vertice di Bruxelles

La chiusura del lungo vertice di Bruxelles segna la svolta nella politica europea? Può essere, se si pensa che il buon giorno dipende dal mattino. C’è da essere più cauti se si considera che quella appena conclusa non è la battaglia finale, ma solo il primo tempo di un confronto destinato a proseguire. Naturalmente si può dire che la sproporzione delle forze in campo era palese: 5 cosiddetti frugali contro 22 altri stati, 5 piccoli e poco significativi nella storia dell’Unione, fra i 22 tutti grandi paesi che ne hanno connotato in vario modo la storia. C’è però da dire che i sentimenti (perché di questo si tratta e non di “ragioni”) che i frugali hanno imposto fanno breccia in una quota non marginale dell’opinione pubblica europea nel suo complesso, e dunque la loro sconfitta non è detto sia definitiva.

Tenere conto di questa realtà è molto importante soprattutto per un paese come l’Italia, ma vale anche per il motore franco-tedesco. Al momento è giustamente prevalsa la consapevolezza che dopo aver costruito un sistema economico integrato, se si lascia saltare una componente si incepperà tutto il meccanismo. Il tabù dei sovranismi economici, che faceva comodo a tutti, ma che aveva la potente sponda britannica ora fortunatamente venuta meno (la Brexit è stata in questo caso un vantaggio per noi e per la UE), è stato mandato in crisi pesante dalla pandemia che ha messo a nudo le connessioni. Sarebbe ingenuo però credere che sia stato definitivamente sconfitto, perché anzi nelle difficoltà si contrappongono sempre le due visioni: quella solidaristica del siamo tutti sulla stessa barca, e quella egoistica del ciascuno per sé e Dio per tutti.

L’Italia deve sapere che questa dialettica continuerà e che noi siamo il principale oggetto del contendere. Anche se la faccenda è discutibile, siamo imputati di essere colpa dei nostri ritardi e qualche fondamento per questa accusa non manca. Certo, chi ha consapevolezza storica sa che nel caso dei paesi e dei sistemi politici è stupido ragionare nei termini di colpa e redenzione come se si trattasse di individui, ma resta che psicologicamente è molto facile presentarsela in quel modo. Dunque dobbiamo sapere che da oggi il nostro paese sarà messo sotto la lente di ingrandimento di tutti i partner europei: dagli uni nella speranza di poter dimostrare che era opportuno darci gli strumenti per la ripresa, perché poi ne avrebbero beneficiato tutti; dagli altri per provare ex post che c’erano tutte le ragioni per prevedere che le cicale italiane non sono capaci di trasformarsi in virtuose formiche.

Anche per noi il problema sarà quello di abbandonare le retoriche banali. Non conta nulla ricordare che siamo un paese pieno di gente abituata a rimboccarsi le maniche, che abbiamo sempre dato testimonianza di grande inventiva, che nella pandemia abbiamo tutto sommato mostrato più spirito civico di quanto ci si aspettasse (ma poi abbiamo rapidamente aperto a derive anarcoidi: o no?). Non è una questione di singoli e neppure di psicologie cosiddette collettive: è un problema di sistema e il nostro non è in condizioni brillanti.

Fare le riforme necessarie non sarà una passeggiata. Innanzitutto ci mancano dei leader che siano in grado di compattare il comune sentire. Conte è uscito bene dagli scontri di Bruxelles, ma non ha il “quid” per trascinare un paese, in primo luogo perché non è in grado di prendere chiaramente la leadership dei Cinque Stelle e di conseguenza quella della sua composita maggioranza. In secondo luogo non riesce a rapportarsi in maniera costruttiva con l’opposizione, inevitabilmente disarticolandola: finché nella Lega dominerà Salvini con cui ha un problema personale sarà complicato ricostruire una dialettica accettabile.

La questione più complicata riguarda però il cumulo di blocchi che si sono instaurati lungo gli ultimi decenni. Siamo un paese di corporazioni, ciascuna molto concentrata nella difesa di sé stessa a tutti costi. Andiamo da caste limitate che però hanno esteso il loro potere su intere categorie (alcuni gruppi di magistrati, di burocrati, alcune sigle sindacali, clan all’interno del mondo della comunicazione, ecc.) a realtà che sono cresciute su contingenze particolari e che, comprensibilmente, si sentono spiazzate dal cambiamento di contesto. Prendiamo l’esempio tipico di tutto ciò che ruota intorno al turismo: l’avevamo definito “il nostro petrolio”, ma adesso è venuto riducendosi, non sappiamo ancora se momentaneamente o come fenomeno di lungo periodo. E’ stupido dire a chi si inserito nel vecchio trend, cambiate lavoro, ma lo è altrettanto pensare banalmente che la soluzione sia mantenergli il reddito a base di sussidi pubblici.

Stesso discorso si potrebbe fare per tutto il vasto mondo dell’intrattenimento (dalle discoteche alle innumerevoli sagre e festival), ma sono solo esempi. Dunque si porrà per il nostro sistema-paese, ancor più che per il governo, il problema di come impiegare la marea di soldi che arriveranno dall’Europa: perché si dovrà resistere alla domanda, che troverà più supporter di quelli che si immaginano, di usarli per tenere in piedi banalmente il mondo di ieri e perché non sarà facile varare un complesso di investimenti da sottrarre ai molti appetiti di lobby ben incistate nei nostri gangli vitali e da indirizzare alla produzione di un salto di qualità nella nostra vita sia pubblica che sociale.

Il ristabilimento di un ragionevole equilibrio politico è una premessa indispensabile per poter gestire questo passaggio storico e non finirci schiacciati sotto. E’ un’impresa a cui al momento si sta lavorando poco e male. Ma se non ci riusciremo, davvero avremo fatto parte della squadra che ha vinto il primo tempo della sperabile nuova fase europea, per essere poi messi in panchina nel secondo tempo e seguenti.