Dopo le Europee: movimenti e scossoni
Adesso le urne europee hanno dato il loro responso e di conseguenza si può uscire dalle nebbie in cui una miriade di “vedette”, in genere piuttosto interessate, hanno annunciato l’approdo in vista di un nuovo, più o meno meraviglioso mondo. Diciamo subito che sono comunque dati da analizzare con cautela, perché non possiamo dimenticare che ci troviamo in presenza di un contesto instabile dove equilibri e conquiste sono sempre precari.
A chi brinda spensieratamente per vittorie presunte epocali, sia ai vertici di FdI che a quelli del PD, ricordiamo sommessamente come sono finiti due vincitori assoluti di passate tornate elettorali europee: Renzi col suo 40% nel 2014 e Salvini col suo 33% nel 2019. Esaltati entrambi da quel successo provarono a cambiare il sistema politico e si sa come è finita (anzi oggi si vede ancor più plasticamente). Meloni in genere è una donna politica più fredda e farà bene a mantenersi tale se vuole consolidare il suo risultato: obiettivo peraltro non impossibile, se non vorrà strafare (attenzione al piano scivoloso delle riforme istituzionali mal congegnate e condotte senza ricerca di un consenso ampio).
Veniamo ad un tentativo di interpretazione di quel che è avvenuto in Italia collocandolo nel contesto europeo. Il primo dato scontato e largamente atteso è la crescita dell’astensionismo che nel nostro paese è sceso seppure solo di pochissimo sotto la soglia fatidica del 50%. Si conferma che una metà del corpo elettorale è indifferente a chi concorrerà al governo della cosa pubblica: giusto o sbagliato che sia, questi cittadini ritengono che i problemi complessi della difficile transizione in cui siamo immersi non siano risolvibili dai politici e preferiscono prendere le cose più o meno come vengono.
La radicalizzazione, per non dire l’esasperazione a cui hanno fatto ricorso quasi tutti i partiti in campagna elettorale non è servita se non a compattare quella metà dell’elettorato che comunque per tradizione o per convinzione si riconosce nei partiti. Non stupisce che allora tutto si sia polarizzato su due componenti classiche del sistema politico a base costituzionale-rappresentativa: il conservatorismo e il progressismo. Quando ci si attende un mutamento in qualche modo epocale, e l’attivismo ideologizzato che sul tema ha proposto il parlamento europeo ha contribuito non poco alla bisogna, abbiamo due reazioni: una è difendere il nostro passato che tutto sommato viene visto come un’epoca di accettabile equilibrio, l’altra è accelerare la trasformazione anticipando volontaristicamente quelle che si presume saranno le novità inevitabili. Ecco allora il successo delle formazioni conservatrici, che si portano sempre dietro la coda velenosa dei reazionari, e in parallelo quella dei progressisti, anch’essi gravati da una coda velenosa, quella dei radicali esasperati. Demagogia e populismo forniscono poi un brodo di cottura generale.
Ora in Italia il conservatorismo è rappresentato da Giorgia Meloni che cerca di adeguare il suo partito alla moderazione necessaria per allargarsi, contando anche sulla spalla che le fornisce FI, non a caso erede di un berlusconismo che nei suoi anni migliori si è tenuto alla larga dai fanatismi Si tratta più o meno della stessa operazione che sta tentando in Francia la Le Pen che punta alla cosiddetta dediabolisation della sua componente per allargarsi verso il centro moderato. Salvini rappresenta la coda velenosa di un leader che spera di trovare nella demagogia più spinta l’arma per risalire la china in cui sta precipitando. Conta anche su quelle componenti di FdI che vengono da una tradizione revanchista e reazionaria, ma non ha capito che sino a quando Meloni avrà saldamente in mano il potere per quelle componenti sarà più conveniente stare al gioco della loro leader.
Il progressismo è per tradizione rappresentato dal PD, che è, o meglio era un partito nato dalla confluenza di varie storie riformistico-progressiste. La polarizzazione imposta al confronto politico da Meloni, che ha bisogno di dar corpo ad un antagonista che faccia paura a chi teme il cambiamento futuro, favorisce la Schlein che è stata investita di quel ruolo dalla premier anche se per la verità è prodotto piuttosto della deriva radicaleggiante che, anche qui come è tradizione, interessa sempre la sinistra in tempi calamitosi. Il PD può però contare su un insediamento storico e ancora su una parte di classe politica allevata alla vecchia scuola riformista (anche se va assottigliandosi) e quindi non sta avendo difficoltà a sbarazzarsi dell’effimero partito pentastellato che, privato della possibilità di vendere sogni perché lontano dal governo (reddito di cittadinanza, bonus e quant’altro), si è visto abbandonato dal suo elettorato populista del Sud.
Ora la domanda che ci si deve porre è come si andrà avanti quando si dovranno affrontare elezioni su questioni molto diverse da quelle per lo più ideologiche affrontate nelle urne europee. Quando si tratta di governare il cambiamento i comizi servono a poco. Meloni si trova in una posizione di vantaggio perché alcune leve per governare le ha in mano e può consolidarsi se riesce a tenere sotto controllo i non pochi pasdaran che la circondano e che sono anche troppo affamati di rivincita in termini di occupazione di posti di potere. Schlein e il PD devono competere su quel terreno della governabilità, abbandonando le mitologie del neo-modernismo da talk show e accettando un percorso non breve di conquista dell’egemonia partecipata alle forze riformiste senza illudersi di risolvere tutto a spallate (sindacali o referendarie).
Vedremo come si evolve la situazione, perché ci sono da aspettarsi colpi di coda da parte delle componenti che sono uscite malconce dalle urne del 8 e 9 giugno.
di Paolo Pombeni