Di Maio batte un colpo?
Dopo una lunga fase di presenzialismo esasperato di Salvini, conclusosi con la prspettazione a Pontida di un ciclo trentennale di governo, il secondo dei cosiddetti dioscuri governativi, Luigi Di Maio, non poteva esimersi dal reclamare un suo forte momento mediatico. L’ha trovato facendosi promotore del primo decreto del nuovo governo a cui, tanto per non essere da meno del suo competitore, ha voluto dare il nome altisonante di “decreto dignità”. Come da tradizione si tratta di un provvedimento “omnibus” in cui si mettono insieme cose diverse: da interventi in materia di diritto del lavoro, a norme contro la pubblicità alle scommesse, a sanzioni per le imprese che prendono aiuti dallo stato e poi licenziano o delocalizzano.
E’ roba buona più per andare in TV e sui social a lanciare qualche slogan contro il precariato e il Jobs Act di Renzi che per incidere davvero su problemi delicati. Non solo perché è stato tutto un va e vieni nella stesura delle norme, inevitabilmente soggette al vaglio delle autorità finanziarie che tutto vogliono tranne che creare problemi di instabilità in un momento delicato, ma anche per la complessità di materie che mal si prestano ad essere tagliate con l’accetta della propaganda. Si pensi solo alle complicazioni fra proroghe e rinnovi dei contratti a termine, alla fumosità di prescrizioni come le giustificazioni da dare al rinnovo di essi, ai distinguo in materia di divieto alla pubblicità per i giochi a scommessa, dove si sono salvati i contratti in essere (ma se la faccenda è illecita, perché non lo è per quelli già attivi?) e si è esclusa la lucrosa lotteria statale di Capodanno.
A Di Maio di queste sottigliezze poco importa, perché deve mostrare che porta a casa risultati facilmente riconoscibili come propri dei pentastellati. Salvini si mantiene nell’ambiguità: da un lato diserta un consiglio dei ministri per andare al palio di Siena (non proprio un bel comportamento per un vicepremier), dall’altro rilascia qualche dichiarazione in cui afferma di sostenere convintamente l’azione del suo alleato.
Secondo alcuni osservatori dipende dalla consapevolezza che le norme in materia di diritto del lavoro piacciono molto poco ad imprenditori ed artigiani del Nord (che l’hanno detto a destra e a manca), a cui però si fa intendere che si sistemeranno in fase di conversione in legge in parlamento. Il passaggio però è molto delicato e cerchiamo di spiegare il perché.
Come sempre è questione di numeri. I Cinque Stelle hanno una forza parlamentare molto maggiore della Lega, seppure non autosufficiente: dunque gli uni e gli altri se vorranno o difendere così com’è o modificare sensibilmente il decreto dovranno trovarsi alleanze. Qui la faccenda diventa chiara. La Lega può puntare a rimettere in piedi l’alleanza di centrodestra: accordo non difficile con un partito sensibile alle sirene dell’industria come Forza Italia, ma già più complicato con FdI il cui atteggiamento su questi temi è più sfuggente. I Cinque Stelle non possono che puntare sulla sinistra, visto che il loro decreto è piuttosto sdraiato sul modo di ragionare della CGIL. Qualcuno da LeU ha già buttato lì che è disposto a collaborare a migliorare il testo (!), ma la posizione del PD è molto più difficile, visto che contiene sia una quota di sinistrismo di maniera (ma poi alcune norme del decreto riprendono per esempio suggestioni del Pd Damiano), sia una quota di sostenitori della prospettiva del famoso piano “Industria 4.0” (non solo Calenda).
In ogni caso resta il fatto che se sul primo decreto del governo Conte si dovesse andare alla verifica di maggioranze diverse, nell’una o nell’altra direzione, difficilmente quell’esecutivo potrebbe sopravvivere. Questo è quel che si spera sui due versanti dell’opposizione che continuano a sognare la dissoluzione traumatica dell’alleanza giallo-verde(o blu, secondo il nuovo colorificio) che è sempre stata presentata come “contro natura”. Ma è davvero questa una prospettiva realistica? Ne dubitiamo fortemente.
Al dunque né a Salvini, né a Di Maio conviene rompere adesso e non solo per il danno di immagine che ne riceverebbero (forse il secondo più del primo, ma siamo lì). Il fatto è che una caduta del governo Conte non avrebbe altro sbocco ragionevole che un ricorso anticipato alle urne, che però non si può più fare perché sarebbe azzardatissimo andare ad elezioni a novembre con l’inevitabile esercizio provvisorio del bilancio che farebbe da moltiplicatore allo choc a cui sarebbero sottoposti i mercati finanziari dal trauma dell’esplodere della maggioranza attuale, per di più in assenza di alternative credibili. In sovrappiù con la difficoltà di formare un governo di tregua elettorale, perché non si potrebbe certo lasciare in piedi quello attuale, né affidare la tregua ad un esecutivo guidato o da Salvini o da Di Maio.
Alla luce di questo quadro è probabile che si troverà come continuare nel gioco di specchi elettorali che ha sin qui dominato nell’azione del nuovo governo. Salvini continuerà a fare l’Erdogan padano (come l’ha efficacemente definito il direttore del “Foglio”), Di Maio a predicare il suo moralismo qualunquista (dai “precari” alle pensioni d’oro), e in Parlamento si troverà modo di esibirsi nel funambolismo degli ossimori, quelli che mettono insieme una cosa e il suo contrario e fanno sembrare il tutto perfettamente logico (a chi è di bocca buona, ovviamente. Ma sono tanti).
Si andrà avanti così (avanti per modo di dire) fino alle elezioni europee che sono l’occasione per Salvini e Di Maio per accreditare, almeno simbolicamente, lo spessore della loro presa sul paese. Poi si vedrà se continuare o andare ad elezioni anticipate sull’onda di quei risultati: ma allora saremo in primavera e ci saranno i tempi per fare l’operazione.
di Paolo Pombeni
di Francesca Rigotti *