Ultimo Aggiornamento:
17 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Della liberazione (o della guerra dei trent’anni).

Novello Monelli * - 28.04.2015
25 aprile Festa della liberazione

Nell’ottobre 1948 l’Associazione Nazionale Alpini tenne a Bassano del Grappa la sua prima adunata nazionale del dopoguerra.

Fu un evento denso di memorie e carico di simboli, non casualmente pensato in coincidenza con il settantesimo della seconda battaglia del Grappa, preludio (o inizio, a seconda dei punti di vista) dell’offensiva finale italiana che avrebbe portato a Vittorio Veneto. Furono oltre 60mila gli alpini in congedo che vi parteciparono, una galassia complessa e un buono spaccato di ciò che era l’Italia appena uscita dalla sconfitta: insieme ai vecchi veterani del 1918 marciavano i  reduci delle campagne in Russia e in Albania del 1940-43, i prigionieri dei campi di concentramento tedeschi e coloro che avevano combattuto nelle brigate partigiane. Con l’eccezione degli ex combattenti della “Monterosa”, la divisione alpina inquadrata nelle forze armate della RSI, i partecipanti all’adunata rappresentavano tutti gli itinerari possibili dell’esperienza della guerra per un italiano del Novecento.

La resurrezione del Ponte Vecchio, appena riaperto al pubblico dopo la ricostruzione (e ribattezzato Ponte degli Alpini) venne trasformata nell’occasione di una grande liturgia collettiva: il trauma della guerra perduta e della guerre civile si legava alle memorie gloriose della guerra vinta, da cui la nuova Italia repubblicana sarebbe dovuta ripartire. Fu questo il cuore delle parole che Alcide De Gasperi, presidente del consiglio, rivolse a quella folla in borghese e in uniforme. Gli italiani avevano conosciuto l’umiliazione della disfatta, la ritirata di Russia, la prigionia e la violenza fratricida, ma non dovevano dimenticarsi che la generazione dei padri aveva egualmente sofferto la disfatta (di Caporetto), la rotta e la perdita di una parte del paese (il Friuli e il Veneto invasi nel 1917) senza rassegnarsi e senza smettere di combattere. L’analogia tra il cataclisma di Caporetto e la «morte della patria» del settembre 1943, e quindi tra la resistenza sul Piave e sul Grappa e la lotta di liberazione (e, implicitamente, tra Vittorio Veneto e la prossima resurrezione, morale e materiale, della nuova Italia repubblicana) non era particolarmente originale. Anzi, si può dire che sia stata la cifra caratteristica delle retoriche pubbliche di tutto il secondo dopoguerra. Già nel 1944, il primo governo reinsediato a Roma aveva puntato su questa analogia storica tutta la propria strategia comunicativa e simbolica: l’Italia era risorta dopo la tragedia del 1917, quando sembrava che l’intera costruzione unitaria dovesse affondare, e sarebbe riuscita a risorgere anche dal caos dell’8 settembre. Come avrebbe dichiarato solennemente nella sua prima riunione dopo la liberazione della capitale, del resto, il governo dell’ «Italia libera» disconosceva ogni continuità non solo con il fascismo del 1940-43 ma anche con quello che aveva oppresso il paese dal 1922 (e a cui andavano imputate tutte le colpe dell’alleanza con la Germania nazista): la «vera Italia» era un’altra, quella che si riconosceva nelle «nobili tradizioni suggellate […] sui campi di battaglia del 1915-18». Operare una separazione netta tra l’Italia sana (quella della storia liberale fino alla dittature e quella antifascista che ne raccoglieva il testimone) e quella cattiva (il regime fascista e le sue scelte) fu un tentativo ambizioso e disperato da parte dei politici che raccoglievano i cocci della guerra perduta, sulla cui correttezza storica ovviamente ci sarebbe molto da discutere (anche se in fondo, nel resto dell’Europa, i paesi vinti e occupati dai tedeschi e la stessa Germania federale stavano costruendo politiche della memoria altrettanto parziali). D’altra parte, non si può dire che l’analogia tra la resistenza sulla linea del Piave e sul Grappa (1917-18) e la Resistenza sulle montagne (1944-45) dovesse sembrare così bizzarra anche al di fuori dei palazzi del potere. Anziani ma ancora autorevoli intellettuali (e opinion makers) come Benedetto Croce la trovarono talmente ovvia da suggerirla per primi: la Resistenza era un «secondo Risorgimento», esattamente come il 1915-18 era stato l’ideale compimento del primo (la «quarta guerra di indipendenza»). E tra gli stessi partigiani (o almeno, tra alcuni di loro) l’idea allignava  spontaneamente: alcune pagine sommamente gloriose (ma non egualmente felici da un punto di vista del successo militare) come la mattanza sul Grappa del settembre 1944 sono difficilmente comprensibili se ci si astrae dalla seduzione simbolica che aveva investito molti (non tutti) leader della Resistenza in Veneto all’idea di difendere il «monte sacro alla Patria» per eccellenza. Partigiano in erba e appena giunto sull’Altipiano di Asiago, Luigi Meneghello ebbe molteplici occasioni di riflettere sugli eterni ritorni della Grande Guerra nelle azioni e nelle parole di chi combatteva al suo fianco contro tedeschi e repubblichini, che tradusse nel dissacrante capolavoro Piccoli Maestri: «le idee erano piuttosto immagini, anzi un’immagine centrale: la bandiera tricolore issata in un punto eminente dell’Altipiano, tra Zebio e Ortigara, e noi schierati intorno a questa bandiera, parte sfruttando le trincee della prima guerra, parte scavandone di nuove […] Queste fantasie mi facevano sorridere; però una parte del loro contenuto attirava in segreto anche me…». Naturalmente, non tutti condividevano questa invadenza delle memorie patrie. Lo stesso Meneghello era più propenso a cogliere la Resistenza come l’occasione per un rinnovamento radicale della culturale e della morale nazionale, ma era stato anche uno studente troppo diligente delle scuole fasciste per disfarsi completamente di queste suggestioni: ironizzava ferocemente sui condizionamenti imposti dai residui del passato, ma ne sapeva riconoscere la forza. «Ma è possibile, pensavo, che non ci tocchi mai il semplice privilegio di combattere?».

E’ perlomeno curioso che le trasformazioni della vulgata resistenziale degli ultimi due decenni abbiano tendenzialmente rimosso, allo stesso tempo, il profondo legame emotivo e simbolico che univa in modi diversi i due conflitti mondiali e il loro significato nella percezione di molti combattenti (e di molti narratori) e l’essenza ovviamente e logicamente violenta della guerra di liberazione. Dove con «violenta» non si deve intendere una connotazione ideologicamente negativa, ovviamente. Era una guerra, si trattava di combattere. Eppure, la tendenza negli studi (e nel discorso pubblico) a prediligere una dimensione di «resistenza civile» (l’assistenza ai civili e ai rifugiati, il ruolo della Chiesa, delle donne nei comitati non combattenti delle città) rispetto alla «resistenza armata» è un dato innegabile, a volte persino straniante. Nel suo ultimo volume, La Resistenza perfetta (Feltrinelli, 2014), uno dei contributi più originali e lucidi sul 1943-45 che la storiografia italiana abbia mai prodotto, Giovanni De Luna ha acutamente messo in rilievo questo bizzarro strabismo celebrativo, che alligna tra le pagine degli storici e dei molti (anche troppi) opinionisti e giornalisti che si consacrano alla confezione di volumi di successo e banali sui centenari. Nel castello piemontese di Villar, che fa da sfondo alla sua storia, si incrociano i destini di uomini (e donne) di provenienza e retroterra ideologici estremamente differenti, accomunati dalla scelta resistenziale. Ma quello di De Luna non è solo un saggio molto acuto sul caleidoscopio di pensieri e di prospettive politiche non omogenee che animarono la lotta di liberazione,  è soprattutto il racconto di individui con le armi in pugno. Può sembrare paradossale, ma, come la ricerca sulla Grande Guerra è stata permeata negli ultimi vent’anni da un’ossessione vittimistica (non è più importante parlare di chi combatte e uccide, ma di chi soffre ed è ucciso) così anche la narrazione sulla Resistenza, molto più che la ricerca per la verità, ha quasi rimosso la dimensione militare. Parlare di prigionieri inermi, di civili vessati e ridotti a bersagli passivi, di donne (che assistono, che subiscono, che si prostituiscono), di assistenza e di deportazioni, è ovviamente molto proficuo dal punto di vista dello studioso, e contribuisce a restituire spessore ad una dimensione della guerra moderna che pertiene la prima guerra mondiale quanto la seconda, benché naturalmente tra 1940 e 1945 la violenza bellica si sia rivolta soprattutto contro i civili. Ma non bisognerebbe mai dimenticare che l’essenza della guerra (ivi compresa quella di liberazione) è soprattutto usare le armi e dare la morte. Contrabbandare la Resistenza come l’atto supremo di mobilitazione di una «cultura della pace» (per parafrasare ciò che è stato sostenuto in un convegno alla Camera dei deputati pochi giorni fa) significa invece offrire una mistificazione, molto affascinante probabilmente dal punto di vista della retorica pubblica, ma discretamente offensiva per la realtà dei fatti. Non c’è dubbio che molti partigiani combattessero sognando un’Italia (e un’Europa) che sarebbe stata migliore e più pacifica dopo aver annientato il potere nazionalsocialista e i suoi vassalli (Giaime Pintor, morto a 24 anni su un campo minato mentre cercava di tornare a nord per combattere, lo aveva scritto nel suo testamento spirituale, Il sangue d’Europa), e del resto molti giovani del 1915-18 avevano condiviso questa speranza nella «guerra che avrebbe dovuto porre  fine alle guerre». Il che non toglie che, prima di passare ai sogni, gli uni e gli altri avessero ritenuto opportuno imbracciare un fucile e dare la morte al maggior numero di tedeschi (o austriaci, o repubblichini) possibile.  Anche in questo bisogno di maggior franchezza e di serietà, la Grande Guerra italiana e la Resistenza sono legate a doppio filo. Forse De Gasperi aveva intuito qualcosa che oggi sfugge agli amanti del politicamente corretto.

 

 

 

 

* Professore a contratto Università di Padova