Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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Del ‘partito della nazione’ e dell’odierna antipatia per le ‘parti’.

Massimiliano Gregorio * - 11.12.2014
Raduno DC con De Gasperi

Da quando il Presidente del Consiglio ha dichiarato di voler fare del PD un ‘partito della nazione’, quest’ultima espressione è entrata senza turbamenti nel linguaggio della politica e dei suoi commentatori. Senza però che vi sia – mi pare – una chiara certezza circa il significato da attribuirle. In particolare, il rischio è che tra le pieghe di essa, si annidi qualche insidioso equivoco concettuale.

C’è da dire che, con ogni probabilità, l’intenzione di Renzi era quella di spronare il proprio partito ad acquisire una maggiore capacità attrattiva dell’elettorato, per divenire maggioritario nel paese. Ma, in tal caso, l’espressione sarebbe superflua. Perché l’obiettivo di prendere il massimo dei voti possibili non è un carattere specifico di un certo modello di partito (ossia del ‘partito della nazione’), ma la missione di ogni partito. E non meno inutile risulterebbe l’espressione se si riferisse al progetto politico messo in campo, come si è letto anche in certi autorevoli editoriali (così Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 27 novembre). Perché ogni proposta politica – nella misura in cui si traduce in programma di governo – ha come naturale destinatario l’interesse generale del paese.

Credo pertanto che l’idea di un ‘partito della nazione’ debba la propria fortuna al fatto di solleticare l’antica diffidenza nei confronti delle parti, alimentando la secolare dialettica tra interessi di fazione e interesse generale. Dialettica secolare, si è detto; perché la concettualizzazione dell’idea di partito politico nel pensiero costituzionale europeo, dal secolo XVII in avanti, si è sempre dibattuta tra i due estremi di parte e tutto; di parzialità e di unità. Tanto da sembrare eternamente destinata a ruotare attorno alla medesima domanda: può il partito – che è etimologicamente parte – essere compatibile con l’interesse generale? Ora: passi che la domanda sia destinata a rimanere perennemente sullo sfondo, ma oggigiorno riportare indietro il dibattito al punto di partenza non sembra comunque una buona idea. Dal ‘country party’ teorizzato da Bolingbroke circa duecentottanta anni fa, infatti, di tempo ne è passato e, in questo tempo, qualcosa abbiamo imparato.

Ad esempio, sappiamo quale ruolo i partiti devono svolgere nelle moderne democrazie costituzionali. Il motivo del loro inserimento nelle Costituzioni del secondo dopoguerra sta nella basilare (e ancora attualissima) funzione che sono chiamati ad adempiere: quella cioè della mediazione politica degli interessi. Il punto di equilibrio tra parzialità e principio di unità è così assicurato dall’idea di partito inteso come parte totale, come ricordava la migliore dottrina costituzionalistica ancora negli anni Sessanta: ossia un partito che muove dalla propria natura parziale (senza rinnegarla!), per progettare una visione complessiva del bene comune rivolta a tutto il paese; che offre cioè una propria (perciò parziale) visione dell’interesse generale. Certo, l’esperienza repubblicana insegna che i partiti italiani assai raramente sono riusciti ad assolvere questo compito. Molto più spesso, infatti, invece di coniugare ad unità i diversi interessi parziali, hanno trovato più semplice lasciarsi fagocitare da essi, spacciando la spartizione clientelare delle risorse per virtuosa composizione degli interessi. Il ‘partito nuovo’ (mi si passi l’espressione togliattiana) è su questo vecchio obiettivo che andrà quindi misurato.

Per raggiungerlo, tuttavia, è indispensabile che il partito prenda le mosse dalla valorizzazione della propria natura parziale, e non dalla negazione di essa. L’idea di un ‘partito nazionale’ funziona infatti proprio perché cavalca l’antipatia verso i partiti, con quell’aggettivo che nega il sostantivo. Ma questo non è indolore. Quando una parte pretende di identificarsi con il tutto, infatti, si erge automaticamente sopra le altre parti e, così facendo, le rende inutili (che bisogno ci sarebbe, infatti, di ulteriori rappresentanze e/o rappresentazioni delle parti, se davvero esistesse un soggetto in grado di rappresentare l’intero?). E non è tutto: il ‘partito della nazione’ finisce anche per suggerire un’immagine distorta, perché irrealisticamente omogeneizzante, del rappresentato. La nazione infatti, come soggettività politica e giuridica, non esiste e non è mai esistita (con buona pace dei nazionalismi di ieri e di oggi); e non a caso i padri costituenti hanno usato il termine con grande parsimonia. Quanto esiste con certezza, invece, è la società, che il Novecento ci ha mostrato in tutta la sua sfaccettata ed irriducibile pluralità e che il terzo millennio rivela in continua e progressiva complessificazione. È questa pluralità di interessi frazionari che il partito è chiamato a comporre, senza vergognarsi di essere parte. Perché solo essendo parte, esso potrà elaborare una propria originale visione: della società, dello sviluppo economico, della democrazia.

 

 

 

* Ricercatore in Storia del diritto medievale e moderno all'Università di Firenze