Corsi e ri(n)corsi a sinistra
Se possiamo giocare un poco con la memoria storica, arriviamo al sospetto che nella politica italiana si stia ripetendo la vicenda che portò fra fine anni Cinquanta ed inizi anni Sessanta del secolo scorso al fallimento di quel processo di modernizzazione della politica italiana che pareva potesse realizzarsi con la famosa “apertura a sinistra”, cioè con l’inclusione dei socialisti nella maggioranza di governo.
Riassumiamo per sommi capi. Anche allora il tema era la necessità di mettere l’Italia in condizione di approfittare dello sviluppo economico presente in Europa facendolo nel quadro di una modernizzazione dei costumi. La DC, che era un partito di tante anime, aveva una destra che non ne voleva sapere. In più era condizionata da una Chiesa assai ostile alla modernizzazione, che la ricattava pesantemente: il rapporto non era facile da rompere, visto che la forza elettorale del partito derivava dall’essere il partito unico dei cattolici. Il PSI a sua volta era fortemente condizionato dal PCI, che non voleva perdere la sua primazia sulla sinistra e che per queste ragioni era, a suo modo, un partito conservatore rispetto alle evoluzioni di quei tempi.
Il risultato fu un lungo conflitto pseudo ideologico fra i futuri contraenti del patto, con i democristiani che per tacitare vescovi e Vaticano chiedevano al PSI abiure e rotture alla sua sinistra e con i socialisti che per non soggiacere all’accusa di tradimento della sua collocazione operaia che il PCI gli rovesciava continuamente addosso si buttava nella richiesta di confuse “riforme di struttura” e di dichiarazioni sulla sua volontà di rivoluzionare le istituzioni dall’interno.
Si sa come andò a finire: con un centrosinistra evirato, che alla fine rinforzò le componenti di destra del sistema, nonostante qualche buon risultato iniziale. E anche allora c’erano battaglie personalistiche con veti reciproci su Fanfani, Moro, Nenni, Giolitti e via elencando.
Oggi la dissennata ordalia che si sta consumando nella sinistra assomiglia assai, mutatis mutandis, a quelle vicende. Certo a condizionare i contendenti non ci sono più né la Chiesa, né il PCI ancorato ai miti para-sovietici. Quel ruolo è stato preso da gruppi di pressione con i loro giornali, i loro talk show e le conseguenti liturgie, ma la sostanza rimane più o meno quella: se si vuole prendere l’occasione di rimettere l’Italia in grado di partecipare allo sviluppo mondiale, serviranno le fatwa dei vari ayatollah autoproclamati delle varie fazioni, o sarà necessario trovare una sintesi di componenti che abbiano forza sufficiente, per consenso e per rappresentanze parlamentari, per guidare il paese a superare la sua crisi attuale? (E a tratti per imporgli di farlo).
Se guardiamo alla situazione che si presenta fra il PD e l’arcipelago di gruppi che si colloca alla sua sinistra, c’è da dubitare che si sia capito quale è la partita che si sta giocando. Infatti non si vuole riconoscere che in una parte non minoritaria del paese o non si vuole correre il rischio di rimescolare le carte con un programma di riforme, o si vuole limitare il rimescolamento all’avvento di una nuova classe dirigente spuntata dal nulla nella speranza o nell’illusione che questa faccia il miracolo di cambiare tutto senza che nessuno ci rimetta.
La sinistra riformista è indubbiamente in affanno, perché quello che è l’unico leader sufficientemente energico per guidarla si trova impelagato in una rete di rapporti che non gli consentono di trovare la scintilla per accendere il fuoco della partecipazione. Renzi appare troppo condizionato dal suo destino personale e troppo fiducioso nella sua scaltrezza tattica per muoversi lucidamente alla costruzione di una alternativa di lungo periodo. I suoi oppositori sono degli sconfitti rancorosi o delle mosche cocchiere che credono di aver vinto la guerra mondiale perché hanno battuto Renzi in un referendum costituzionale da lui mal organizzato e peggio gestito ( e ben pochi ricordano i guasti che quella bocciatura ci ha lasciato in eredità).
Tuttavia quello che purtroppo domina è il clima complessivo che nel cosiddetto “campo progressista” impedisce di fare il più elementare dei ragionamenti: se l’obiettivo è intervenire sulle storture del nostro sistema, si può farlo solo a patto di disporre della forza necessaria innanzitutto sul piano parlamentare. Continuando nella attuale orgia di lotte di fazione combattute a pro del teatrino mediatico, che viene scambiato per la “opinione pubblica” del paese, una forza adeguata non si costruirà certo. Naturalmente i duri e puri obiettano che è meglio lasciare la vittoria alla destra piuttosto che sostenere soluzioni che vedano orrendi compromessi con gli impuri di ogni genere.
Vorremmo ricordare, sempre per trarre qualche lezione dalla storia, che fu un errore che la sinistra già fece negli anni Venti con la teoria idiota del “socialfascismo” e si sa come si finì in un disastro (che si dovette poi recuperare con la clamorosa marcia indietro sui “fronti popolari” e con la teoria della “democrazia progressiva” a cui il nostro compromesso costituzionale deve non poco).
Se le sinistre in questo paese evitassero di rincorrere questi errori storici ci guadagnerebbero tutti. Certo ci sono quelli che lavorano meritoriamente col Vinavil, ma, da modesti bricoleur, vorremmo ricordare che perché la colla faccia aderire due pezzi questi vanno puliti, livellati e adattati, non presi così come sono, perché non funziona. Anche qui la metafora potrebbe suggerire qualcosa.
di Luca Tentoni
di Paolo Pombeni