Comunali: il rendimento dei candidati sindaci
Nel nostro viaggio nelle elezioni comunali dei sette capoluoghi di regione chiamati al voto il 5 giugno (e, in sei casi su sette, il 19 giugno per i ballottaggi) abbiamo fatto riferimento al "bipolarismo comunale", cioè alla capacità dei due maggiori candidati di attrarre il massimo numero dei voti possibile. Mentre a livello nazionale i due "poli" più forti hanno ottenuto il 77,2% nel 1994, per salire all'85% nel periodo 1996-2001 e al 98,9% del 2006, ridiscendendo all'83,8% nel 2008 e crollando fino al 58,7% del 2013, a livello comunale si è assistito ad un primo dato più basso (1993-'95: 67,6%) per poi salire all'82,3% del 1997-'99, assestarsi sul 92,2% del 2001-'09 e scendere al 79,75% del 2011-'13. In occasione delle elezioni amministrative del 2016 i due candidati più votati hanno ottenuto in media un più magro 72,4%, segno che la competizione multipolare lascia circa tre votanti su dieci senza il proprio candidato sindaco al ballottaggio. È col voto degli "elettori orfani" che si può decidere più di una competizione. Tornando al "bipolarismo comunale" ci si è chiesti - in un precedente articolo per Mentepolitica - se la forte discesa dell'indice nazionale potesse essere accompagnata da un abbassamento altrettanto forte a livello locale, nelle sette maggiori città al voto. In effetti, fra il 1994 e il 2006 lo schema bipolare è stato più forte per il Parlamento che per i comuni. Sul piano nazionale, si è passati – come accennavamo - dall'83,8% del 2008 al 58,7% del 2013, con un calo del 25,1%, mentre localmente si è scesi dal 92,2% del 2006-2009 all'attuale 72,4% (-19,8%): una dinamica netta ma più contenuta. Fra le comunali 2011-2013 e quelle del 5 giugno 2016 si è assistito ad una diminuzione dei voti ai primi due candidati, ma solo in cinque delle sette città al voto: a Trieste si è risaliti al 70% dal 68,2% del 2011, mentre a Napoli De Magistris e Lettieri (gli stessi sfidanti del 2011) hanno avuto il 66,8% dei voti contro il 66% della scorsa volta. Per il resto, la diminuzione è stata avvertita in modo netto, indipendentemente dal tipo di competizione (cioè dal colore politico degli sfidanti: le combinazioni sono diverse) negli altri cinque capoluoghi: -6,7% a Cagliari, -7,2% a Milano, -11,2% a Torino, -9,1% a Bologna, -19,6% a Roma. Il caso romano è interessante e va trattato a parte, perchè nel 2011, nella Capitale, i candidati "forti" erano due (Rutelli e Alemanno) e avevano ottenuto l'86,5% dei voti, mentre nel 2013 i rappresentanti di centrodestra e centrosinistra (Alemanno e Marino) si erano fermati al 72,9% (per l'"ingresso in campo" del candidato centrista Marchini e dell'esponente dei Cinquestelle). Tuttavia, le comunali del 2013 si erano svolte a pochi mesi dalle politiche, in occasione delle quali le due coalizioni più votate (quella di Bersani e quella di Berlusconi) avevano ottenuto il 67,1% dei voti. Ci si attendeva, dunque, data la maggior "resistenza" del bipolarismo comunale nella Capitale, un risultato maggiore per i primi due in lizza. Invece il moltiplicarsi dell'offerta politica e delle candidature (una del M5S, una di centrosinistra, una di sinistra, una di centro, una di destra) ha fatto registrare a Roma il più basso indice di tutti i capoluoghi di regione al voto: il 60,1%, di ben 12 punti inferiore alla media delle sette città. Non si è tuttavia assistito alla discesa dell'indice sotto quota 60%. Così, mentre nelle 36 competizioni comunali del periodo 1993-2013 si era avuto un indice inferiore al 60% in tre casi, fra il 60 e il 70% in sei e sopra il 70% in 27 occasioni, nel 2016 due comuni sono rimasti fra il 60 e il 70 e gli altri cinque sopra il 70%, a conferma che a livello locale permane una certa tendenza a concentrare il voto intorno alle due personalità che sono considerate più in grado di ottenere l'elezione a sindaco. A Roma e a Napoli, dove c'era un terzo candidato forte (così come a Bologna, dove l'indice si è fermato a quota 71,7%) la pluralità dell'offerta politica ha superato un'ormai storica tendenza all'aggregazione bipolare. Nonostante ciò, come abbiamo visto nel precedente intervento su Mentepolitica, questa pluralità non ha incoraggiato il voto al solo sindaco; anzi, lo ha drasticamente ridimensionato, non solo per questioni relative alla scheda di votazione. Solo il 4,4% degli aventi diritto (contro il 7,3-7,7% del periodo 2011-2015, fra regionali e comunali) ha scelto esclusivamente un nome anzichè le liste collegate (o altre liste non collegate). In termini di voti validi, si è passati dal 12,8% delle comunali precedenti all'8,1%. In particolare, però, si fanno sempre più rari i candidati che "trainano" i propri schieramenti. Di solito, in passato, quelli di centrosinistra svolgevano questa funzione, mentre quelli di centrodestra erano più in difficoltà. Stavolta solo a Milano e a Cagliari (in questo caso si è avuta l'unica elezione al primo turno nei sette capoluoghi di regione al voto) l'esponente del centrosinistra ha fatto meglio delle liste. A Milano Sala ha avuto il 49,65% dei voti al solo sindaco, contro il 37,57% di Parisi, mentre le liste sono finite quasi alla pari (41,2% quelle di Sala, 41% quelle di Parisi). A Cagliari, invece, Zedda ha fatto la differenza: le sue liste si sono fermate al 47,7% dei voti, mentre lui ha superato il 50%. Nel panorama degli altri candidati di diversi schieramenti, pochi sembrano aver avuto un ruolo trainante. Sono i casi di Giorgia Meloni (FdI) col 30,3% dei voti fra quelli per i soli sindaci (le sue liste, però, erano al 19,65% e la spinta non è bastata), di Chiara Appendino (M5S) a Torino (45,4% dei voti ai soli sindaci) e di Luigi De Magistris a Napoli (22970 voti in più delle liste, mentre la candidata del Pd Valente ne ha avuti addirittura 3760 in meno), nonchè (sia pure in una città nella quale i voti ai soli candidati sono stati pochissimi, quindi il dato non è molto significativo) di Lucia Borgonzoni (centrodestra-Lega) a Bologna (32,3% dei voti ai soli candidati contro il 22% delle liste di coalizione). Insomma, i casi nei quali la persona fa differenza ci sono ancora, ma paiono divenire sempre più rari. A questo punto, resta irrisolto il nodo relativo alla durata della transizione italiana. I risultati sulle sette più grandi città al voto ci danno qualche indizio sul futuro del sistema politico? Anche utilizzando altri indicatori, la risposta è ambigua. L'indice di bipartitismo, per esempio, che misura i consensi alle prime due liste classificate, è ancora molto basso: 0,457 (pari al 45,7% dei voti), poco più basso dello 0,469 delle regionali e dello 0,489 delle scorse comunali. Si tratta, in effetti, di consultazioni sempre ricche di liste aggiuntive rispetto a quelle nazionali, che rendono impraticabile un paragone con gli indici misurati in altre consultazioni (europee 2014 0,658, politiche 2013 0,532, europee 2009 0,665, politiche 2008 0,767). Lo stesso risultato ci viene dall'indice di frammentazione elettorale, che resta pressochè invariato rispetto alle regionali e alle precedenti comunali. Tuttavia, l'indice di transizione (che misura, in parole povere, i movimenti di voto fra un'elezione e l'altra) resta a livelli elevati, non altissimi come nel periodo 2011-2013 ma tali da farci avvertire che l'elettorato è ancora fluido, disposto a spostarsi a seconda dell'offerta politica. La transizione, dunque, non è conclusa, come avevamo ipotizzato anche prima del voto del 5 giugno.
di Paolo Pombeni
di Luca Tentoni
di Claudio Ferlan