C’è bisogno di “buona” politica, non di una politica “bella”
Justin Trudeau fino ad oggi pareva un leader impeccabile: di successo, capace, in Canada, di riportare alla vittoria i liberali dopo un lungo mandato conservatore guidato da Stephen Harper, ma soprattutto di bell’aspetto, con il coraggio di posare senza veli e di esibirsi in flessioni e addominali nelle aule parlamentari, in una politica sempre più attenta a “fare colpo” sull’elettorato attraverso gli effetti speciali.
Ma la politica del consenso attraverso la “bellezza”, il fare colpo in maniera sensazionalistica e chiacchierata si nutre di un consenso volatile e che può essere facilmente eroso nel momento in cui si verifichi la tendenza ad uno iato tra i valori che si professano e le azioni che si compiono. Senz’altro queste leadership che giocano abilmente sull’ostentazione di sé, ammiccando l’occhio alle riviste patinate e cercando pedissequamente il flash dei fotografi, non possono che apparire più pacate, più rispettabili e, ovviamente, meno pericolose rispetto alle leadership strillate, che giocano sul consenso di pancia e non sedimentato, su quella che viene chiamata “politica della paura” (pensiamo a Marine Le Pen in Europa o al partito Hindutvà in India). Sono di questo tenore la maggior parte delle leadership liberali di oggi, ma queste leadership, attirando su di sé i riflettori quasi volontariamente, rischiano di scivolare in fretta sulla classica buccia di banana, giocandosi in poco tempo la fiducia dell’elettorato nel momento in cui la rendicontazione agli elettori circa i propri traguardi politici (accountability) viene occupata quasi integralmente da operazioni di facciata anziché di sostanza, quelle vale a dire capaci di tradurre in azioni la corrispondenza ai propri valori. La politica dell’“estetica” di oggi rischia di svuotarsi di contenuti e di valori: la “bella” politica, fatta da persone belle e di successo che sfruttano abilmente i media in termini di creazione di consenso, dimentica che il compito aristotelicamente statuito in capo alla Politica dovrebbe quello di essere “politica buona”, capace di offrire modelli ed esempi di vita ai cittadini ed in cui come scriveva nel V-IV secolo prima di Cristo Aristotele nell’Etica Nicomachea e nell’Etica Eudemea, ciascun cittadino può essere chiamato a dare il proprio contributo per il miglioramento delle condizioni di vita del complesso della popolazione.
Già nella rivendicazione aristotelica secondo la quale “ciascuno possiede qualcosa di proprio per contribuire alla verità e alla felicità” vediamo del resto una critica nei confronti dell’elaborazione teorico-politica di Platone in cui erano soltanto “alcuni” individui a poter assurgere ai più alti magisteri (e nella fattispecie, amaramente non verificatasi secondo Platone, dovevano essere i filosofi a governare giacché essi detenevano gli arcana imperii del potere). In questa logica aristotelica di apertura del potere potremmo oggi interrogarci circa l’opportunità – o meglio l’inopportunità – di perseguire la strada del “filone dinastico-familiare”, purtroppo così caro anche nella tradizione occidentale, in cui gli uffici democratici sono in qualche modo qualcosa da ereditare e da passare da padre a figlio, chiudendo la politica in una torre d’avorio difficilmente espugnabile per chi venga giudicato “al di fuori” delle logiche di potere usitate (i Kennedy, i Bush, i Clinton, i Trudeau in Canada, come già i Chamberlain e i Churchill in Gran Bretagna). Pensiamo a quanto la retorica della familiarità con un intero sistema di potere abbia giocato sfavorevolmente ad Hillary nella recente tornata elettorale, come se essa – pensavano alcuni osservatori – rivendicasse la propria appartenenza familiare in maniera quasi utilitaristica e funzionale. Ma la ricerca di una politica “buona” e “giusta” di matrice aristotelica, in cui la politica e l’etica concorrano a determinare l’interesse comune, contrariamente al primato della politica sull’etica che sancirà parecchi secoli dopo Machiavelli, la ricerca di una politica “buona”, dicevamo, passa attraverso il lavoro di scavo sui valori e il lavoro di applicazione dei valori stessi alla realtà pratica e contingente (come ci ricordava nei giorni scorsi su Dissent il politologo di Princeton Michael Walzer).
Ecco perché negli ultimi giorni il Primo Ministro canadese Trudeau ha destato scandalo visto che egli ha – più o meno inavvertitamente – disatteso alla legge sul conflitto di interessi canadese che vieta agli alti ufficiali dello Stato di accettare passaggi aerei privati, laddove invece il Premier canadese di Sua Maestà Elisabetta II ha accettato un passaggio privato sul jet dell’Aga Khan per andare in vacanza su un’isola deserta (anch’essa di proprietà della guida musulmana), già in campagna elettorale, d’altro canto, il leader del paese dell’acero aveva invitato a sostenere la propria causa personaggi dalla dubbia sincerità di intenzioni, lautamente paganti alle sue cene con la speranza di vedere realizzati progetti di espansione urbanistica (né questo è in alcun modo materia di reato, ma solo di buono o cattivo gusto quando si spendono migliaia di dollari per sostenere un candidato piuttosto che un altro – e qui ci sarebbe sin troppa materia per argomentare che forse sarebbero meglio sussidi statali o pubblici rimborsi puntuali verso tutti i diversi candidati in competizione per “slegare loro le mani” dagli appetiti successivi dei più diversi soggetti).
Il tema ambientale è un’altra spina nel fianco di Trudeau, soprattutto dal punto di vista degli oleodotti di idrocarburi che attraversano la regione incontaminata dell’Alberta e che il Governo Trudeau sta per aumentare (acconsentendo al completamento delle Keystone Pipelines in vincolo ad un accordo economico-politico con gli Stati Uniti). È in questo contesto che è arrivato l’affondo dell’attrice statunitense Jane Fonda che ha chiesto al leader canadese maggiore radicalità nel rivendicare il proprio ambientalismo all’insegna di un incisivo “non fidatevi dei liberal di bell’aspetto” che la Fonda ha stizzosamente gridato alle colonne del Guardian. È pur vero che il governo Trudeau ha giudicato l’industria petrolifera e degli idrocarburi sintetici un’industria sul viale del tramonto, nondimeno il tramonto del primato del petrolio nell’economia capitalistica contemporanea viene rimandato a data da destinarsi anche dal giovane e bello leader canadese. Insomma, anche Trudeau non sembra immune da una certa discrasia tra quanto predicato e quanto praticato e per questo motivo alla politica dell’estetica sarebbe ora anche in Canada di cominciare a sostituire una politica fatta di valori profondi e contenuti solidi (anche se passi importanti sono stati fatti per esempio in tema di immigrazione con la recente nomina del Ministro dell’integrazione Ahmed Hussen, ex rifugiato somalo).
Come ben ha rilevato Amartya Sen nel suo ultimo libro The Country of First Boys (Harvard University Press, 2015), fare perno su una politica “di senso” non può in alcun modo significare l’abbandono di quella leggerezza necessaria a non lasciare che i problemi prendano il sopravvento, occorre soltanto trovare il giusto equilibrio tra rigoroso e strenuo lavoro e momenti scherzosi, tra dedizione alla causa e mantenimento di un’ironia importante per una politica politicata non più con la P maiuscola come un tempo eppure poco avvezza all’umiltà e molto più ad ondate di supponenza poi duramente redarguite dal corpo elettorale nelle urne.
Il richiamo aristotelico teso a una “buona” politica e non solo ad una politica “bella” torna quindi ad essere centrale per la compartecipazione e la corresponsabilità che ciascun cittadino deve avere per il bene pubblico e per una politica incentrata sui contenuti e sui valori (giustizia sociale, equità, progressivismo fiscale, diritti civili, economici e sociali, pensando al campo che sta a sinistra) e non solo su un’estetica di facciata che può durare il tempo di una vittoria elettorale e poi perdersi al secondo round, quando i cittadini cominciano davvero a chiedere ai leader di ciascun colore fatti (e preferibilmente “buoni” fatti) e non solo “belle” immagini o parole.
* Mattia Baglieri è uno storico delle dottrine politiche e consulente a progetti europei ed internazionali.
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