Buon senso cercasi
Molti dicono e scrivono che in una crisi di pandemia come questa ha poco senso occuparsi dei pranzi di Natale. Ci permettiamo di dire che non è così semplice. Le usanze hanno le loro valenze e i loro significati sociali. Naturalmente non tutto quello che è andato sedimentandosi nei decenni pazzi che abbiamo attraversato è da considerare usanza e tradizione. I più anziani fra noi ricordano benissimo una giovinezza in cui Halloween non esisteva, l’obbligo della “settimana bianca” che è motivo per assenze giustificate a scuola neppure, e così le carovane di pullman che scorrazzavano per l’Italia per fare il giro dei mercatini di Natale.
Con questo non si vuole abbandonarsi ad una austerità di maniera, alla riscoperta di spiritualità che sanno di ipocrisia perché sono veicolate da circostanze eccezionali. Si vorrebbe, in questo come in altri casi su cui verremo, chiedersi perché nell’affrontare un’emergenza non si possa usare un po’ di buon senso anziché abbandonarsi alle varie caricature di Catone il Censore.
Per portare un paese a parametrarsi su una emergenza drammatica bisogna essere in grado di diffondere messaggi comprensibili e a misura dell’equilibrio psicologico e sociale delle comunità. Prendiamo un esempio banale. Tutti possono capire che anche per Natale vanno evitati gli ammassi di persone dove è impossibile rispettare il distanziamento fra gli individui e dove si tenda a protrarre questi incontri per un tempo molto lungo. E’ difficile invece pensare di tradurre questo in limiti giuridici che non tengono. Chi ha sostenuto che a Natale l’incontro potrà avvenire solo fra parenti di primo grado, ha parlato a vanvera senza saper il valore giuridico dei termini. Per restare al livello più banale significa che il coniuge di un figlio o di una figlia non può vedere i suoi genitori, perché non è un parente di primo grado, ma giuridicamente un “affine”. E non parliamo dei nipoti oppure di tanti legami affettivi che non passano attraverso una giuridificazione (dopo aver fatto battaglie epocali per le coppie di fatto e via dicendo).
Pensate altrettanto al divieto di spostamento dal comune di residenza. Nelle grandi conurbazioni accanto alla metropoli principale sono sopravvissuti comuni della cosiddetta “cintura” che di fatto sono un tutt’uno con essa. Di conseguenza mentre i residenti nella metropoli hanno a propria disposizione un’area molto vasta con una pluralità di opportunità e servizi, i piccoli e medi comuni delle cinture sopravvissuti come entità amministrative devono restringere le possibilità di fruizione dei loro residenti tagliandoli dal rapporto con quell’area vasta in cui sono abituati a vivere.
Si dirà: ma allora bisogna arrendersi al liberi tutti con effetti devastanti sulle possibilità di espansione dell’infezione. Ovviamente non è questa la conclusione che si vuol trarre. Più semplicemente occorre ricordare che le misure draconiane e semplificatrici servono a poco: innanzitutto perché non c’è abbastanza capacità repressiva per farle osservare integralmente, per cui aumenta la tentazione a non tenerne conto con la convinzione che tanto si sarà sanzionati solo se si ricadrà nella piccolissima percentuale di sfortunatissimi che incappano nei rari controlli. In secondo luogo perché più arzigogolate sono le norme più è difficile renderle un patrimonio acquisito da tutti e dunque rispettato spontaneamente.
Sarebbe molto più utile che le autorità pubbliche si impegnassero in una pedagogia del buon senso, capace di far passare i messaggi in modo che questi vengano interiorizzati e poi trasformati in autonome norme di condotta da parte di tutti. Purtroppo si sta lavorando molto poco in questo senso. Nel terrore che tutto scappi di mano, perché si percepisce che c’è scarsa fiducia nelle capacità di programmazione della maggior parte delle autorità, ci si affida solo al messaggio terrorizzante e catastrofico, appena alleviato dalla promessa che dopo si tornerà come prima e tutto sarà risolto.
E’ l’errore che è stato commesso nella gestione della prima fase: misure di contenimento molto severe, in generale ben rispettate, ma con l’idea che era una breve fase transitoria perché alla fine “andrà tutto bene”. Il cosiddetto lock down generale ha funzionato, ma appena finito c’è stata l’enfasi sul riprendiamoci la vita e la conseguenza è stata una seconda ondata peggiore della prima.
Oggi si dovrebbe imparare da ciò che è stato. E’ necessario convincere tutti che non si può tornare a vivere come prima, che sempre nella storia ci sono momenti in cui alcune possibilità diventano largamente fruibili ed altri in cui così non è (una lezione che una certa ingenua teoria del progresso infinito ha reso non più presentabile). Ciò nonostante si può continuare a fruire delle conquiste di socialità, di interscambio, cercando modalità opportune e comportamenti che tengano presenti le condizioni necessarie per la difesa della salute pubblica. In sé non ci sarebbe niente di nuovo: i progressi fatti dall’igiene nella storia hanno abbattuto molte malattie endemiche e contagiose proprio cambiando i modi di comportamento delle persone. Se oggi la durata media della vita si è allungata nella misura che sappiamo, lo dobbiamo in parte non piccola proprio a questo.
La pedagogia pubblica su cui bisogna concentrarsi è questa, non quella del sensazionalismo che non serve, né se è di marca ultra rigorista, né se è incline al lassismo. Bisogna sforzarsi di salvare anche i simboli e le usanze per tutto quello che è possibile e le ritualità del Natale, nella loro versione comunemente vissuta al di là del significato religioso che per la maggior parte della gente hanno perduto, rientrano in questo patrimonio. Dimensionarle al momento difficile che attraversiamo è doveroso, lavorare per mantenerle comunque vive come il buon senso ci suggerisce è un’operazione di politica forte ed è utile alla difesa del sentimento di comunità locale e nazionale (una risorsa che sarebbe bene non sottovalutare).