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24 aprile 2024
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A passo lento l’Europa si muove

Gianpaolo Rossini - 01.07.2014
Financial Times

Il vertice europeo dei capi di stato del 25 e 26 giugno segna una significativa presenza italiana e presenta nel lento cammino dell’integrazione continentale aspetti nuovi: alcuni sconcertanti e altri, per fortuna, più rassicuranti. In primis il vertice sancisce un forte isolamento della Gran Bretagna. In secondo luogo,vi è  la nomina del presidente della commissione sulla base della maggioranza che si è stabilita nel parlamento europeo in seguito alle elezioni del 25 maggio 2014. In terzo luogo si accorda una pur lieve flessibilizzazione ai paesi con conti pubblici gravati da alte posizioni debitorie.

La crescente distanza della Gran Bretagna dall’Europa ha origini lontane e vicine. Viene però soprattutto da una autoesclusione del Regno Unito dall’Unione Monetaria. La sterlina è stata per tutti i governi inglesi, compresi i laburisti della fanfara retorica e bolsa di Blair, una bandiera attorno a cui attrarre i voti di una componente nazionalista nostalgica tuttora presente, come l’affermazione di Farage alle recenti elezioni europee mostra. L’Inghilterra entra nella Unione Europea (allora CEE) nel 1975. Già a fine del 1978 l’affermazione della prima Margaret Thatcher porta alla richiesta di rinegoziazione dei termini dell’adesione. Un contributo di un qualche spessore della Gran Bretagna alla integrazione europea risale al lancio del mercato Unico europeo del 1993, di cui è considerato il padre Lord Cockfield, commissario europeo inglese al mercato interno della commissione a direzione Delors. In seguito la Gran Bretagna si distingue per continue rampogne e per il frequente smarcarsi da tutto. Ed è un vero peccato perché sia l’Ue che l’unione monetaria potrebbero beneficiare di una adesione ad una filosofia anglosassone pragmatica e flessibile, piuttosto che alla rigidità tedesca e al burocratismo francese. L’assenza dall’euro della Gran Bretagna costa molto all’Europa, all’Italia e all’Inghilterra. L’Italia beneficerebbe di una politica monetaria simile a quella della FED con un ridotto gravame degli spread e regole di bilancio più flessibili. La Germania avrebbe un contrappeso nella Gran Bretagna non fosse che per il rilievo della finanza della City in Europa e nel globo. Dunque avremmo una Europa meno Merkeliana. Ma anche l’Inghilterra avrebbe giovamento e soprattutto la City non avrebbe perso quote di mercato e prestigio. A cento anni da una guerra che devastò l’Europa non abbiamo per fortuna a correre gli stessi pericoli. Ma la riottosità e la incapacità della Gran Bretagna di negoziare alla pari con gli altri partners è un residuo di quel passato duro a morire. Sulla stampa britannica più autorevole come il Financial Times, traspare la fatica a giustificare l’atteggiamento del premier Cameron che si rifiuta di approvare la nomina di Juncker alla presidenza della commissione. Si accampano pretesti molto deboli e un po’ ridicoli e si ricorre all’attacco personale di bassa lega che, ad esempio, la stampa italiana, con tutti i suoi difetti, non si permetterebbe. Ciò che più stupisce è che Cameron non vuole che il presidente della commissione sia eletto per la prima volta dal partito che ha avuto la maggioranza al parlamento europeo perché ritiene che questo esautori i governi. Mentre invece si tratta di un passo positivo verso una maggiore democratizzazione dei processi decisionali a livello europeo. Il Financial Times, in maniera un po’ goffa, mette in dubbio la legittimità del parlamento europeo perché la percentuale di votanti (il turnout) è stata bassa. Una motivazione sorprendente nel mondo anglosassone dove un numero infinito di elezioni scontano bassissime percentuali di votanti. Insomma la Gran Bretagna non sa più che pesci pigliare per rincorrere il nazionalismo che ha coccolato pericolosamente e del quale non riesce a liberarsi.

 

Ciò che non piace a Cameron è una novità importante che apre scenari nuovi per il Parlamento europeo soprattutto per il suo ruolo di controllore della BCE, finora scarsamente incisivo. Così come la nomina di Juncker alla presidenza della Commissione può essere vista con un certo ottimismo. Non dimentichiamo che, con Tremonti, l’ex presidente lussemburghese in maniera coraggiosa e pionieristica lanciò l’idea degli eurobonds già nel 2010. Per il nostro paese si tratta dunque di una nomina che ha una valenza positiva e che potrebbe spingere verso una maggiore integrazione finanziaria. L’ultimo elemento positivo riguarda la maggiore flessibilità per il rientro dal debito e soprattutto una maggiore pazienza dei nostri partners dell’euro per il raggiungimento del pareggio nel bilancio pubblico. Nella sostanza non si tratta di un grosso cambiamento perché il peso del nostro debito resta intatto. Ma è positivo che si cominci a  riconoscere da parte tedesca che se non si aiuta la ripresa anche la locomotiva Deutschland rischia di sbuffare e poi di fermarsi. Emerge comunque da questo vertice la necessità per l’Italia, mai abbastanza ripetuta, di avere governi stabili e con solide basi. Solo così è possibile ottenere attraverso una negoziazione continua e determinata migliori condizioni in Europa. L’Europa come l’Italia ha bisogno di qualche riforma. Ma soprattutto Italia ed Europa richiedono uomini e donne capaci, determinati e con un forte sostegno da parte dei loro paesi. L’Europa, se non vogliamo tornare indietro verso il vuoto, si costruisce con un negoziato costante ed energico. Il resto spesso è secondario.