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L’Università dimenticata
Va bene che la ministra Giannini sia impegnatissima con la riforma della scuola (peraltro con risultati poco brillanti), ma il suo disinteresse verso una regolare routine delle scadenze di vita dell’università italiana è veramente riprovevole. Dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il Ministero funziona male, perché il primo requisito di una buona amministrazione è la capacità di gestire con regolarità le scadenze. Naturalmente si potrebbe aspettarsi qualcosa di più: che so, uno straccio di prospettiva strategica sullo sviluppo del nostro sistema di istruzione superiore, una qualche idea su come implementare le capacità del sistema di ricerca, un pensierino al tema del turn over dei docenti vista l’età media di questi.
Intanto però ci accontenteremmo di una gestione responsabile di alcune scadenze che non sono proprio cosette da nulla.
La prima è la valutazione del sistema della ricerca. Da mesi si vocifera nei corridoi che sta per partire la famosa valutazione ANVUR, i responsabili di questa agenzia ci informano negli incontri che dal loro punto di vista da tempo è tutto pronto, ma la valutazione non parte. Sappiamo tutti che contro questa modalità di valutazione ci sono molte opposizioni (corporative). Come sempre in Italia, la valutazione a parole la vogliono tutti, ma in concreto non ce ne è mai una che vada bene. leggi tutto
Come cambieranno le pubblicazioni accademiche
Le pubblicazioni accademiche hanno risentito della rivoluzione digitale in modo ancora limitato, soprattutto per quanto riguarda le scienze politiche e la storia. Tuttavia, è plausibile che nei prossimi anni si rafforzeranno due tendenze che hanno già cominciato a comparire: 1. le pubblicazioni accademiche tenderanno ad abbandonare la carta; 2. si allenteranno i legami tra le pubblicazioni accademiche e le case editrici. Questo cambiamento riguarderà le pubblicazioni accademiche in senso stretto, cioè quelle che servono a presentare i risultati di nuove ricerche dettagliate, condotte in ambiti circoscritti e indirizzate agli altri specialisti del settore. Altri tipi di lavori realizzati dagli studiosi, come quelli rivolti al pubblico generale, continueranno invece ad essere espressi attraverso i libri, la carta e le case editrici.
La separazione dalla carta
Obiettivo naturale di una pubblicazione accademica è raggiungere l'intera comunità degli specialisti interessati a quell'argomento. In passato, la circolazione delle scoperte e delle idee doveva necessariamente passare dai libri e dalle riviste, che naturalmente erano cartacei. Oggi questo non è più né il solo né il migliore modo di fare circolare scoperte e idee. In formato digitale, le pubblicazioni accademiche possono raggiungere in maniera immediata tutti gli specialisti del settore, ovunque essi si trovino. Grazie ai motori di ricerca e ai social network, un libro o un articolo in digitale leggi tutto
Lasciate ogni speranza. Come il governo intende rottamare i ricercatori precari.
La menzogna del merito
Una delle più diffuse convinzioni che aleggia sul sistema della ricerca italiana è che il merito sia solo una delle variabili della carriera scientifica, e nemmeno quella più importante. In effetti, ad un osservatore dotato di un minimo di senso critico pare difficile non accettare l’idea che università, enti di ricerca e fondazioni siano il regno della selezione per demerito e mediocrità. Come la stampa ama mettere in evidenza, in questo paese si diventa ricercatori e professori universitari per devozione, per sangue, per affiliazione ideologica, per fascino e a volte, sorprendentemente, anche per talento. E’ un giudizio superficiale, ma contiene un buon nucleo di verità. In effetti, la mediocrità alligna nei corridoi del malandato sistema accademico nazionale, ma non lo fa ovunque e negli stessi termini. Esistono dipartimenti universitari in cui clientelismo e nepotismo sono la regola e altri dove una sparuta pattuglia di accademici in posizioni di responsabilità (ordinari volenterosi, direttori di dipartimento e responsabili di laboratori) tentano ancora di promuovere il reclutamento di studiosi originali e produttivi. Il che non significa che il bilancio complessivo non sia disastroso. Perché i “buoni accademici” sono un po’ come i veterani giapponesi nel Pacifico: superstiti accerchiati in una giungla di parenti, clienti, portaborse e amanti, con poche armi e sovente depressi. E abbandonati da un governo che sembra divertirsi a peggiorare la situazione. leggi tutto
Come ti rottamo l’università (tanto non serve a niente).
Colpo di grazia
Se le notizie diffuse nei giorni scorsi dai quotidiani (per primo “Il Sole 24 ore” del 26 settembre) dovessero essere confermate, la legge di stabilità che sta per essere definita dal Consiglio dei ministri si appresta a sferrare il colpo di grazia al sistema dell’Università e della ricerca. Per finanziare l’assunzione straordinaria di 148mila precari della scuola (e per far fronte ad altre millanta promesse del medesimo genere dispensate in questi mesi) il governo Renzi diminuirebbe il Fondo ordinario universitario (il budget complessivo a disposizione degli atenei italiani per funzionare) di una quota variabile tra i 170 e i 400 milioni di euro. L’oscillazione delle cifre (quella minore è stata rilanciata da un ulteriore articolo del “Sole” di venerdì scorso) non muta la sostanza, anche se testimonia l’agghiacciante pressapochismo dell’esecutivo a proposito di questi temi. Ogni ulteriore taglio al finanziamento del sistema della ricerca sarebbe infatti un irreversibile atto di autolesionismo, in primo luogo perché, come ha ricordato da ultimo il rettore di Padova, Giuseppe Zaccaria, in un sistema internazionale complesso come quello in cui l’Italia compete (o dovrebbe competere), il sostegno alla ricerca e alla formazione superiore è essenziale. L’attuale 0,43% del PIL destinato al mondo universitario è certamente ridicolo in confronto ai paesi competitori più prossimi geograficamente, come Germania e Francia, ma depotenziarlo ancora sarebbe un crimine. leggi tutto
Erasmus: tra successi e difficoltà di bilancio
Una «situazione contraddittoria»
Se è vero che in epoca di crisi i tagli alle spese sono una necessità, è meno comprensibile il fatto che a rimetterci possano essere le iniziative che funzionano. Sono di pochi giorni fa due notizie, paradossalmente contrastanti, che riguardano l’Erasmus, il celebre programma europeo che consente agli studenti universitari di effettuare in un’università straniera un periodo di studio legalmente riconosciuto dalla loro sede d’appartenenza.
Da un lato, i risultati dell’Erasmus Impact Study, un’indagine condotta per conto della Commissione UE, ci dicono che il programma garantisce agli studenti migliori prospettive lavorative. Dall’altro, il commissario europeo al Bilancio ha fatto sapere che il budget 2014 è già a un livello di spesa mai raggiunto prima e che i tagli potrebbero toccare le borse Erasmus per gli studenti. L’interruzione di questo finanziamento è stato indicato dal commissario Jacek Dominik come uno dei possibili «effetti collaterali» dell’inevitabile sforbiciata. Se dovesse accadere sarebbe ben più che un paradosso: non solo, infatti, il programma Erasmus rappresenta, da oltre 25 anni, il fiore all’occhiello dell’Europa unita, ma i tagli andrebbero a colpire proprio il settore – istruzione, ricerca, innovazione – che i governi dei 28 paesi membri indicano da sempre come quello che farà ripartire crescita e occupazione. Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha ammesso che si tratta di una «situazione contraddittoria» e assicurato che la presidenza italiana del Consiglio UE farà di tutto perché non siano sacrificati i finanziamenti alla ricerca e ai programmi di mobilità studentesca. leggi tutto
La soluzione soddisfacente? L’università e la riforma della pubblica amministrazione
Sosteneva il ministro Giannini che «la soluzione a cui si è arrivati sull’età di pensionamento dei docenti universitari è soddisfacente». Naturalmente adesso sembra che non sia più così, perché siamo il paese delle marce indietro, ma a prescindere da questi ripensamenti (frutto di lobbysmo?) forse è utile ragionare come se la marcia indietro non ci fosse stata. Soprattutto nell’ottica del fatto che forse, un giorno non lontano, al tema si tornerà a dedicare la giusta attenzione.
La questione, per i molti che non avessero trovato particolarmente intrigante la vicenda parlamentare del cosiddetto “disegno di legge Madia” (altrimenti noto come riforma della pubblica amministrazione) votato il 31 luglio dalla Camera, può essere riassunta così: la tendenziale resistenza dei docenti universitari (e di altre categorie, quali magistrati e medici) a farsi pensionare anzitempo (diciamo più o meno alla metà della sesta decade di vita), ostacolo non da poco nella marcia trionfale della ministra per lo svecchiamento del mare magnum dei dipendenti dello Stato. leggi tutto
Il dottorato, una risorsa non sfruttata
L’ANVUR ha pubblicato poche settimane fa il Rapporto sullo stato del sistema universitario. Il rapporto tratta anche del dottorato di ricerca, istituito, come si ricorderà, con la ‘382/ 1982. Recitava la legge Ruberti: “E' istituito il dottorato di ricerca quale titolo accademico valutabile unicamente nell'ambito della ricerca scientifica.” Questa definizione conteneva in sé il limite della innovazione: mentre introduceva anche nel nostro ordinamento accademico il PhD (per diventare poi, con il “Bologna process”, il terzo livello della formazione universitaria) lo confinava all’ambito della carriera universitaria impedendone così, sul nascere, uno sviluppo verso la professione e la ricerca extra universitaria. E infatti, per oltre venti anni, il PhD ha fornito al nostro sistema universitario quel “periodo di prova” che i ruoli a tempo indeterminato non consentivano. Questa configurazione non poteva certo resistere alla “grande crisi”, ai tagli ai bilanci degli atenei e ai limiti imposti al turnover. Il problema occupazionale dei PhD è diventato quindi e finalmente un (nuovo) problema nazionale, come dimostrato, inter alia, dalle iniziative del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e della Regione Emilia e Romagna con lo strumento dell’alto apprendistato. leggi tutto
Qualità vo cercando. De-meritocrazia e ope legis uccidono la scienza, impoveriscono il paese (e annientano una generazione)
Non è un paese per meritevoli
La recente presentazione del rapporto ISTAT 2014 ha sollevato la consueta ondata di gemiti ed alti lai sul destino di una nazione che sta diventando sempre di più un deserto di talenti e cervelli. Negli ultimi cinque anni, quasi centomila “giovani” in età lavorativa (fino a 34 anni) hanno lasciato l’Italia in cerca di miglior fortuna all’estero: una parte rilevante di costoro (il 25% degli emigrati nel solo anno di rilevamento 2012) è costituita da personale altamente qualificato, in possesso di una laurea o di un titolo post-lauream. leggi tutto
La generazione mai. I precari della ricerca che erano troppo giovani per la de-meritocrazia e oggi sono troppo vecchi per il giovanilismo.
C’è un fantasma che si aggira per i corridoi delle università italiane, quello di una generazione che non è mai stata.
Nati negli anni Settanta, studenti negli anni Novanta, questi spettri tra i trenta e i quarant’anni sono un paradosso vivente. Sono il primo segmento generazionale che ha fruito in modo massiccio dei dottorati di ricerca e di un sistema di borse ancora relativamente ricco. E costituiscono anche il primo gruppo anagrafico ad aver avuto compattamente la possibilità di vivere buone esperienze internazionali. Per un giovane studioso impegnato in una ricerca di buon livello, tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, trascorrere un soggiorno all’estero, candidarsi per partecipare ad un convegno internazionale, tentare di pubblicare su una rivista straniera non era solo una patente di nobiltà accademica, era quasi un obbligo morale. Ciò non significa che tutti abbiano fatto tesoro di queste opportunità, ma ci sono pochi dubbi che i trentenni e quarantenni che hanno affollato le selezioni per dottore di ricerca, e successivamente per borsista, assegnista e magari ricercatore rappresentino l’insieme mediamente più qualificato e dinamico che l’università italiana ricordi. leggi tutto
Silenzi e bugie. Perché gli italiani non amano la loro università
Una delle letture più deprimenti che un lettore mediamente colto di quotidiani possa sostenere è rappresentata dagli interventi degli editorialisti sui problemi di università e ricerca. Se poi si vuole transitare dalla tristezza al disgusto, ci si può anche aggiungere un tour nella pagina dei commenti on line, quinta di scena dell’analfabetismo nazionale. E’ un atto indubbiamente masochistico, ma può essere istruttivo per conoscere l’abisso che separa la cosiddetta «opinione pubblica» (e molti dei cosiddetti opinion makers più in voga) dal mondo dell’alta cultura.
In effetti, l’ignoranza degli italiani sul tema non dovrebbe sorprendere. Quando un noto e ascoltato commentatore può sostenere che in Italia esistono «oltre cento università» (F. Giavazzi, Corriere della Sera, 6 novembre 2010), in cui insegnano «troppi professori» (Idem, Corriere della Sera, 24 ottobre 2010) e da cui escono troppi laureati (Idem, Lavoce.info, 28 novembre 2012) e, dopo aver prodotto questo rilevante cumulo di inesattezze, può continuare a intervenire da «esperto» sulla questione, è evidente che c’è un problema a monte, ed è di corretta informazione. leggi tutto