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"Things are changin’?" Washington e le Filippine di Rodrigo Duterte
Le provocatorie dichiarazioni del Presidente Duterte durante il recente vertice ASEAN di Vientiane offrono una buona occasione per fare il punto sullo stato dei rapporti fra gli Stati Uniti e le Filippine e – più in generale – sui cambiamenti che stanno interessando gli equilibri dell’Asia sud-orientale. Dopo il ridimensionamento del ‘pivot to Asia’ e le rinnovate tensioni con la Corea del Nord intorno all’apparentemente intrattabile dossier nucleare di Pyongyang, le intemperanze verbali di Duterte sono parse a molti una nuova dimostrazione della crisi che gli USA starebbero vivendo sulla scena internazionale. Da questo punto di vista, è valso poco che la Casa Bianca abbia annullato l’incontro che il Presidente Obama avrebbe dovuto avere con l’omologo filippino. La sfida di Duterte ha lasciato comunque l’impressione di un’America in difficoltà, tanto arrogante da volersi ingerirsi negli affari interno di uno Stato sovrano ma troppo debole per potere imporre effettivamente la propria volontà. E’ abbastanza difficile distinguere – nelle parole del Presidente filippino – quanto risponda a una logica di consenso interno e quanto a vera convinzione. Nei in questi primi mesi di mandato (l’insediamento ufficiale risale al 30 giugno scorso), Duterte si è segnalato per i ripetuti (e coloriti) attacchi non solo contro gli Stati Uniti, leggi tutto
Le conseguenze dei race riots
Gli ultimi race riots nelle città americane sono affari piuttosto limitati, rispetto alle proteste pacifiche. Secondo i giornali, gli incidenti più grossi coinvolgono qualche centinaio di persone, il che vuol dire forse non più di cento. Se si guardano con attenzione i video, si riconoscono poche decine di individui, in genere maschi, sempre gli stessi, che si spostano di qua e di là. Sono anche affari piuttosto auto-punitivi. A essere colpiti sono infatti obiettivi sotto casa, negozi soprattutto, forse qualche grande magazzino di catena, questo sì di proprietà “straniera”. Ma nel complesso l’orizzonte della violenza è parrocchiale, non esce dal quartiere, non attacca i luoghi del potere cittadino laggiù, downtown.
E tuttavia i riots fanno notizia, bucano la routine del news cycle, portano le proteste e le fiamme e le sirene e le botte dei tafferugli nei telegiornali serali, evidenziano i problemi, in questo caso i comportamenti sconsiderati e omicidi della polizia e la sottostante tensione razziale. Mettono a nudo le strutture bianche del governo locale, quando sono bianche. Fanno esplodere le contraddizioni in quelle città in cui i sindaci, i capi della polizia, gli stessi poliziotti che premono il grilletto sono anch’essi neri, e allora la cosa è un po’ più complicata. leggi tutto
Presidenziali USA. Cosa cambia dopo le convention?
Nel mese di luglio, le convention nazionali dei due partiti maggiori hanno aperto la fase finale della corsa per l’elezione del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Da copione, Hillary Clinton da una parte, Donald Trump dall’altra hanno ottenuto (pur con qualche malcontento) la nomination nei rispettivi partiti. Più articolata è stata la scelta dei candidati alla vicepresidenza (i c.d. ‘ticket’). In entrambi i casi, i nomi emersi (Mike Pence, governatore dell’Indiana, per Donald Trump, Tim Kaine, senatore della Virginia, per Hillary Clinton) hanno colto di sorpresa gli osservatori. Le logiche sottese a queste scelte sono molto diverse. Il moderato – e finora poco conosciuto -- Pence dovrebbe in qualche modo ‘smussare’ le asperità più evidenti di Trump rimanendo, al contempo, una figura abbastanza lontana dall’establishment di partito da non entrare in contrasto con la sua campagna ‘anti-casta’. Tim Kaine, al contrario, rappresenta una figura bene inserita dentro alla ‘macchina’ democratica, da cui Hillary Clinton trae buona parte del proprio sostegno. La scelta come ‘running mate’ di quello che è percepito come un ‘mainstream Democrat’ chiude, quindi, la porta alle speculazioni a suo tempo circolate intorno a un leggi tutto
Ravelstein, Obama e il realismo liberale
“Mandano un esercito formidabile e mostrano di saper fare una guerra moderna altamente tecnologica […] Ma poi lasciano il dittatore al suo posto e se ne vanno alla chetichella”. Vengono in mente queste parole del prof. Abe Ravelstein, protagonista dell’omonimo romanzo di Saul Bellow, alla lettura di alcuni passaggi del discorso sullo Stato dell’Unione del presidente Obama dello scorso gennaio. In particolare Obama ha affermato che gli USA non possono “ricostruire ogni Paese che cade in crisi”, osservando sconsolato che “anche senza ISIS e Al Qaida l’instabilità continuerà per decenni in molte parti del mondo”. Sul tema il presidente USA è poi tornato, nel mese di marzo, in un importante colloquio con la rivista “Atlantic” (tradotto in italiano lo scorso maggio da “Internazionale”).
La realtà è però più complessa di quanto la suggestione immediata suggerisca. Come è noto, nel romanzo di Bellow, Ravelstein è l’alter ego di Allan Bloom, il filosofo allievo di Leo Strauss morto di AIDS nel 1992 e celebre per il saggio La chiusura della mente americana. Ravelstein compie l’affermazione dopo aver appreso la decisione di Bush Sr. di non marciare verso Bagdad una volta liberato il Kuwait nella prima guerra del Golfo del ’91. Fonte dell’informazione di Ravelstein è un suo ex-allievo divenuto consigliere del segretario alla Difesa, leggi tutto
American Democrats: prendersi i repubblicani scontenti o costruire una nuova maggioranza progressista?
Ci sono due modi per immaginare una strategia elettorale che dia qualche soddisfazione al tuo partito. Il primo presuppone che l’universo in cui giocare sia quello degli elettori abituali, un dato più o meno immutabile. Chi vota vota, chi non vota affari suoi. In questo caso il gioco è a somma zero. Per vincere devi strappare elettori al partito avverso, metterne in cattiva luce il candidato, attaccarlo personalmente, persuaderli che il tuo è migliore, convincerli a cambiare cavallo. Se hai successo quello che ottieni è il tira e molla dello status quo: una volta vinci tu, la prossima vincono loro, un po’ per uno e così sia.
Il secondo modo ipotizza che l’universo elettorale sia più ampio ed elastico, che includa potenzialmente tutti gli aventi diritto, anche chi di solito non vota. In questo caso puoi decidere di uscire dal recinto per portarvi dentro forze nuove, per mobilitare persone e gruppi sociali che finora sono rimasti ai margini ma che pensi siano a te favorevoli per ragioni economiche, etniche, religiose, di genere. Se hai successo, nelle giuste condizioni, realizzi una svolta storica che dura una generazione. Porti dentro la classe operaia e fai il partito democratico del New Deal. leggi tutto
Gli Stati Uniti e i dilemmi dell’Asia-Pacifico
Annunciato fra squilli di tromba alla fine del 2011, che fine ha fatto – meno di cinque anni dopo -- il ‘pivot to Asia’ che avrebbe dovuto rappresentare uno degli elementi qualificanti della politica estera di Barack Obama? Il recente attivismo del Presidente uscente sul fronte dell’Asia-Pacifico induce a porsi questa domanda soprattutto dopo che, in una lunga serie di circostanze critiche (prime fra tutte le iniziative ‘muscolari’ della Corea del Nord durante le ripetute crisi nucleari e missilistiche degli ultimi anni), la risposta di Washington è stata, nelle migliore delle ipotesi, ‘di basso profilo’. Con la partenza di Hillary Clinton dalla Segreteria di Stato (2013), il ‘pivot’ sembra essersi via via diluito fino ad assumere, negli ultimi anni, la forma di un più blando ‘rebalancing’. Parallelamente, i rapporti con la Cina (il cui contenimento costituiva uno degli obiettivi per cui il ‘pivot’ era stato pensato), sembrano essere migliorati. Fra il 2009 e il 2014, il Presidente Obama ha compiuto due visite ufficiali nel Paese asiatico e altrettante ne ha compiute il Vicepresidente Biden (2011 e 2013).
Parallelamente, fra il 2011 e il 2015, due presidente cinesi si sono recati in tre occasioni negli USA: Hu Jintao nel gennaio 2011 e Xi Jinping nel febbraio 2012 e nel settembre 2015. L’integrazione economica fra i due Paesi è cresciuta, leggi tutto
Obama e Dallas
A Dallas, nella cerimonia in memoria dei cinque agenti uccisi da Micah Johnson per vendicare i neri uccisi dalla polizia, il Presidente Obama ha fatto quel che doveva: rassicurare il paese, calmare i toni violenti dello scontro su razzismo e arbìtri della polizia, elogiare gli agenti per il loro durissimo e pericoloso lavoro e al tempo stesso ricordare che il razzismo esiste ancora. Risultati? Zero, come se avesse parlato al muro, Obama non è parso in grado di far molto contro la furia che divora l’America. Senza dubbio la campagna elettorale anomala e destabilizzante di quest’anno ha contribuito a rendere impossibile il suo compito; ma se la campagna si svolge in questi termini è anche perché nel paese c’è rivolta.
Parlo di rivolta, non di rivoluzione, termine otto-novecentesco adatto a società complesse, ma compatte in cui le classi potevano essere viste muoversi “come un sol uomo”. Gli Stati Uniti non sono stati mai analizzabili davvero in questi termini. Non che siano alternativi ai paesi europei; ma sono stati l’esempio di avanguardia, quindi difficile da inquadrare, della modernizzazione che anche nel Vecchio Mondo - più lentamente - ha eroso dal di dentro, frammentandole, le classi sociali che aveva creato con la rivoluzione industriale. Una “nazione di immigrati”, leggi tutto
Donald Trump e le incognite del Grand Old Party
Quali lezioni deve trarre il Partito repubblicano dall’ampio consenso che Donald Trump ha raccolto nelle primarie presidenziali che si stanno per concludere nonostante l’ostilità che i vertici istituzionali hanno ostentato verso di lui? Quali potranno essere gli effetti a lungo termine di un successo che – al di là degli esiti del voto dell’8 novembre – rompe tradizioni e modelli interpretativa consolidati? Queste domande si sono fatte strada con forza crescente con il passare del tempo, mano a mano che i candidati più accreditati per la nomination di luglio abbandonavano la competizione e quello che dapprima era stato considerato più che altro un fenomeno di costume s’imponeva come il più serio sfidante dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton per il posto di quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Come il suo contraltare in campo democratico, Bernie Sanders, Trump è riuscito a dare voce ai molti che non si riconoscono in un partito che da anni fatica ad esprimere figure di standing adeguato; un problema emerso nel 2008 con la candidatura (per altri aspetti rispettabile) di John McCain e amplificato nel 2012 con quella incolore di Mitt Romney. In questo senso, la frammentazione dell’offerta politica repubblicana in una pluralità di rivali spesso difficilmente distinguibili l’uno dagli altri ha finito per fare il gioco di Trump, accentuandone la visibilità ed elidendo quella di quanti – pur dotati di una più solida piattaforma elettorale – si sono ritrovati intrappolati nella categoria (poco pagante in termini di voto) di ‘candidati dell’establishment’. leggi tutto
Obama, Trump e il reality show
Alcuni giorni fa Obama ha ammonito Donald Trump avvertendo che la presidenza non è un reality show bensì una carica che richiede serietà. Inoltre si è detto preoccupato della troppa enfasi data dall’informazione agli aspetti spettacolari (https://www.washingtonpost.com/news/post-politics/wp/2016/05/06/obama-on-trump-this-is-not-entertainment-this-is-not-a-reality-show/). Certamente è vero che Trump rappresenta un caso estremo di spettacolarizzazione della politica. Tuttavia, se oggi egli risulta credibile agli occhi di molti americani che lo hanno votato alle primarie, forse è anche perché la politica cosiddetta pop ha già invaso da tempo l’immaginario dei cittadini e ha in qualche modo preparato il terreno. Innanzitutto, Trump non è la prima celebrità che arriva alla politica dal mondo dello spettacolo (ricordiamo, infatti, che è noto al grande pubblico non solo per i suoi affari e la sua ricchezza, ma anche perché è stato conduttore di un reality show di successo, The Apprentice). Ma, soprattutto, il punto da sottolineare è che da qualche tempo la comunicazione politica in generale è pervasa dalle commistioni tra politica e intrattenimento: candidati come Hillary Clinton e perfino Bernie Sanders si sono prestati a recitare in programmi satirici; lo stesso Obama si è fatto protagonista di un video leggi tutto
Daniel Berrigan (1921-2016). Un uomo contro la guerra
Sabato scorso, 30 aprile, è scomparso all'età di novantaquattro anni il padre gesuita Daniel Berrigan. Il titolo scelto dal New York Times per annunciare la notizia lo descrive come “il prete che predicò il pacifismo”. Berrigan è stato un simbolo dell'azione politica di quella che negli Stati Uniti è stata chiamata la “nuova sinistra cattolica”.
I nove di Catonsville
L'opinione pubblica mondiale lo conobbe soprattutto per una clamorosa azione di protesta contro la guerra in Vietnam. Assieme al fratello Philip e ad altri sette attivisti cattolici entrò nel Centro di reclutamento di Catonsville in Maryland (17 maggio 1968) per bruciare le lettere di chiamata alle armi. La portata emblematica del gesto fu rinforzata dalla scelta di incendiare le carte usando del napalm fatto in casa.
Fu un'azione drammatica che contribuì alla crescita della protesta contro la guerra in Vietnam in tutti gli Stati Uniti, caratterizzata in seguito da sempre più frequenti proteste e atti di disobbedienza civile. I “nove di Catonsville” furono condannati alla reclusione per distruzione di proprietà statale, ma si nascosero in clandestinità. Scoperti e catturati, furono effettivamente incarcerati. Daniel Berrigan scontò due anni di pena nella prigione federale di Danbury, dove ricevette anche la visita del generale della Compagnia di Gesù, Pedro Arrupe, uomo che nella propria esperienza missionaria aveva vissuto la scioccante esperienza della bomba atomica a Hiroshima. leggi tutto